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LIBRI E RECENSIONI. FRANCESCA MARZIA ESPOSITO - MATERIALI RESISTENTI

LA RELIGIONE DEI CORPI

Francesca Marzia Esposito

Di Manuela Monda

Un romanzo del corpo sui corpi. Corpi pesanti, addolorati, prostrati, affaticati. Corpi resistenti.
Corpi che sono sempre periferici e che quando soffrono, hanno male dappertutto.
Tale è l’esperienza di significato che si può associare alle riflessioni che nascono dopo aver letto Materiali resistenti di Francesca Marzia Esposito. Una narrazione di un corpo, quello di Quintana, che si annichilisce e si tormenta in un tentativo quotidiano di non essere. Di non essere lei -e proprio lei- la persona a cui è toccato addentrarsi in un tortuoso esperimento esistenziale che ha a che fare con la separazione.
Con le separazioni. Quelle dolenti dell’amore che finisce e che, finendo, le s-finisce anche il corpo, tuttavia, puntellandolo, sempre più a sé stesso in una trasformazione della sua identità che la porterà, invece, ad una guarigione davvero resistente: quella di chi riconosce, nel buio delle incertezze, la verità.
Ma la verità è, soprattutto, ciò che non si dice. É ciò che si nasconde nell’evidenza. É tutto quello che ha a che fare con l’indugio. Con l’attesa.
“Dimmi come stai, piuttosto. Al buio, in una casa abbandonata, non dico”. Il “non dico” è un’espressione ricorrente nel romanzo che crea, in chi legge, una sorta di arresto e, poi, di ri-partenza tra ciò che è dato da pensare e quello che invece è pensato.

Dice Veronica Raimo, nelle ultime pagine del suo romanzo Niente di vero –un memoir viscerale e potente che setaccia, scremandone il significato, l’ambizione di essere sé stessi, che “il senso di tutte le cose tende ad assomigliarsi appena ti viene richiesto di esprimerlo, e sembra che la verità possa esistere soltanto nella reticenza”. Nella reticenza a non dire il vero che è conclamato pure quando se ne racconta il contrario. E che se si smette di raccontarlo, allora lui prende a narrarsi, sfuggendo ad ogni regola del prevedibile, attraverso il corpo. Del resto, siamo corpi che parlano. Che danno prova del loro essere nei contorni fisici che si riducono, che aumentano, negli sguardi ossessivi e ricorrenti alle forme che assumono, ai dettagli im-pertinenti. Alle fobie che li tormentano.
“Il corpo è la mappa su cui personalità e memoria –gioia, godimento e dolore- disegnano il loro viaggio” dice Vittorio Lingiardi nel suo Corpo, Umano. Che, nel caso di Quintana, è un corpo sfuggente alla metodica ripetizione di gesti, al rassicurante esercizio di rituali e di pensieri magici e che si fa soggetto di pensiero critico e individuale quando scopre che non lei soltanto, ma tutti, proprio tutti “siamo soli. Siamo (tutti) definitivamente soli”. Il romanzo è un progressivo, tormentato, ossessivo tentativo che Quintana fa, ogni giorno e ogni notte, per restare attaccata a Mauro, quell’uomo che invece è già alle prese con una vita nuova.
La sua, senza di lei. La sua che lei rincorre, per non perderne il filo, tra silenziosi appostamenti social attraverso cui scopre –e conferma- la sua definitiva sparizione dalla vita dell’uomo.
Questo viversi lontani e distanti, in due vite parallele che non conoscono più la condivisione -“ci si innamora tra sconosciuti. Ci si lascia tra conosciuti”- porta Quintana a desiderare un vuoto che non solo la abita da dentro e che, quindi, lei soltanto può vedere, sentire, annusare, maneggiare ma un vuoto che diventi collettivo. Un vuoto oggettivo e condiviso in cui la sua condizione di disinteresse apatico diventi, in realtà, l’espressione di “un corpo isolato in un pacifico distacco”.
La sua ossessione che in realtà è anche l’ossessione delle altre due donne che vivono tra le pagine di questo romanzo, Leona e Cora, la ragazza sfinge, traccia una linea di oscillazione che rappresenta lo spazio –o la distanza- tra quello che è il desiderio di essere (ri)amati e il miracolo di essere amati.
L’amore, percepito inizialmente come un dono che Quintana non sente di meritare è, in realtà, una regola che non che non conosce regole, che può infliggere il nulla nel centellinare risposte, parole, attenzioni e che semmai, proprio quando finisce, può solo insegnare a drizzare le posture, a tirarla fuori dal buio della sua casa, per consegnarla al mondo e alle sue rivoluzioni.
Anche quando, queste, portano l’eccentrico nome dei Pro-cement.

Un romanzo, per flashback continui, che insegna a crescere e a subire la fascinazione del fallimento, della stortura imperfetta che ci rappresenta, come persone, come individui. Come umanità.
“Si diventa adulti e storti, anzi storti perché adulti” dice Francesca Marzia Esposito ed è finalmente una maledizione che si scioglie quando l’imperfettibile conoscenza che si ha degli altri comincia a combaciare con l’imperfettibile idea che si ha di sé stessi.
Perché, cosa sappiamo, davvero, delle vite degli altri? E gli altri, cosa sanno veramente di noi? Cosa succede quando scopriamo chi e cosa sono veramente le persone che frequentiamo? Quando il sentimentalismo crolla, allora, si rinasce con l’osservazione lucida. La sola in grado di illuminare e di rispondere, con verità, alla mole di domande che intasano la testa. “Troppi vorrei rendono ciechi” si legge tra le pagine del romanzo. E chi siamo, in apparenza e chi siamo veramente finiscono col restare, entrambi, nell'oscurità. Solo ciò che diventiamo, trasformandoci, Quintana ci insegna, si vede veramente. Anche se abbiamo “una vita interiore che sta strabordando da tutte le parti”.

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Informazioni sul libro
Francesca Marzia Esposito - Materiali resistenti
Harper Collins 2025
224 pag.
Attualmente in commercio
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