COME CORPO CHE CADE
Di Manuela Monda
Perché ci si resta incollati, col pensiero, alle pagine già lette e a quelle ancora da leggere attratti da dalla voce immaginativa della Mitologia Familiare.
Un racconto che è un circuito introspettivo sulla
maternità e su tutta una storia genealogica che non è solo la storia personale
dell’autrice ma è anche la storia della sua città, Messina e del Mandalari, il
manicomio in cui viene rinchiusa la sua bisnonna. L’internamento delle donne è
sempre stato storicamente e socialmente descritto come un fatto legato alle
“cadute” dei loro corpi che eccedono nei desideri o nelle diversità. E, in
queste pagine, ciò che si sente è proprio il peso e la struttura del corpo. Del
corpo di Venera –“una donna cui era morta una figlia e che nonostante tutto era
rimasta viva”- che, però, teme l’abisso. Venera che, col suo di corpo, teme di
caderci dentro e che forse ci cade ma senza toccare il fondo. Senza
sperimentare, forse, l’abisso vero. E forse quel franare di un corpo, il suo,
che scivola lascia i segni di mani, di dita e di unghie che grattano, che si
aggrappano pur di non cedere. Pur di non cadere davvero. E non so se quei segni
li ho immaginati, ma so di certo che li ho sentiti.
Perché “l’abisso chiama l’abisso” e se c’è una cosa
che Nadia Terranova impara dalla sua bisnonna è che “a sporgersi non perderebbe
solo l’equilibrio ma qualcosa di meno riconquistabile e più rischioso, il
desiderio di restare in piedi”. “Cadere non cado –ripete Venera- cadere non
cado- cadete voi, io non cadrò mai più”. Nadia Terranova eredita da queste
parole pensate (dette?) dalla sua bisnonna una paura che sembra un sortilegio e
che continua ad avere i suoi effetti mentre percorre la memoria umana e storica
che le appartiene. Una linea genealogica sembra trafiggere il suo di corpo e poi
l’attraversa, come donna, come madre e come figlia in una matrilinearità che la
sorregge dalle cadute. Tanti, di quei corpi delle donne della sua famiglia,
rischiano ma non cadono.
Vacillano. Danzano. Resistono. Altri precipitano come
quello di Giovanna che muore nell'utero di sua madre mentre Venera cade sotto
il tendone di un circo o come quello di sua zia Rinuccia che, diciannovenne,
accidentalmente scivola nell'abisso di in un precipizio.
Il cadere dei corpi non è un fatto raro e soprattutto
non è sempre un fatto accidentale. E, nell'esperienza femminile, le cadute nel
pozzo, come ci insegna Natalia Ginzburg, sono più comuni di quanto si possa
pensare. O immaginare. Bajani, che per parlare di sua madre deve compiere
un’operazione preliminare e cioè scorporarla da suo padre, dice, in una delle
ultime pagine del suo ultimo romanzo che “ogni cosa, cadendo, continua a
cadere, anche quando ormai ha toccato il suolo”. L’esperienza del cadere sembra
essere un fatto progressivo. Un cedimento lento e successivo che non termina
mai il suo destino. In Corpo, umano Vittorio Lingiardi dice che “dal corpo non
si scappa”. Poi aggiunge “dalla presenza, più ancora dall'assenza”. Eppure sembra
che tutti noi siamo lì rifuggirlo dall'interno per prendercene cura dal di
fuori, scongiurandone i disordini e le vertigini interiori, evitandogli
inciampi e cadute. E perciò, dunque, quando si tratta del corpo di una donna con
quali parole possiamo approcciare un discorso? Nadia Terranova dice che “la
parola che definisce il ruolo è già pronta per noi dopo un parto, un
matrimonio, un lutto: madre, moglie, vedova, orfana. La nostra definizione ci
precede, spesso, per sbarrarci la strada.” Tra le pagine di questo romanzo è
rinvenibile, inoltre, una riflessione su come la scienza usi il DNA
mitocondriale –e cioè quello che si eredita dalla madre- per riuscire a
tracciare la memoria più remota delle origini dell’essere umano e sul fatto che
nei mitocondri è individuabile una quantità definita di geni che sono
tramandabili solo di madre in figlia. Questo rapporto di esclusivismo
genealogico riporta, in qualche modo, all'esclusivismo che esisterebbe nel
rapporto madre-figlia. Senza, tuttavia, lasciare i padri fuori. Nel romanzo,
infatti, c’è una narrazione attenta a decifrare anche lo spazio agito dai
padri. Sono uomini, come il granatiere, che osservano da lontano, che aspettano
di ritrovarsi interi. Che attendono, anche loro, la sospensione di una pena. Di
una colpa. Che sperano ancora nel futuro. O come il terzogenito maschio nato
dopo tre anni dalla remissione di Venera che, invece, a immaginarsi un futuro
non ce la fa. “Come impazziscono gli uomini, come scelgono di andarsene i
padri, smettono mai di essere figli?” E le donne che diventano madri riescono a
restare anche figlie?
Quella madre-figlia è una relazione genealogica significativa
che può riabilitare le donne, tutte, restituendo loro un significato di sé, nel
mondo. Dice Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre che è molto difficile
per noi donne decidere di amare la propria madre perché veniamo da secoli di
narrazioni che ci invitano ad abbracciare la causa della differenziazione e del
distacco come assolutamente necessari. Amare la madre, invece, significa
sottrarsi all'ordine simbolico maschile e patriarcale che identifica le donne solo
con la loro funzione procreatrice. Come se, una volta diventate madri, il ruolo
di donne e di figlie sparissero per sempre. Le figlie, dice Nadia Terranova,
“sono corpi che strappano e stralciano. Le figlie espropriano il corpo della
madre, che per via di quell'esproprio può impazzire, provare un’insofferenza
esasperata, sognare di tornare libera e nuda, prima di loro, senza di loro. Per
poi soffrire una mancanza indicibile quando i corpi che ha generato sono
lontani e non incombono più. Quando contro ogni evidenza la loro presenza
resta, come quella degli arti amputati”.
E poi aggiunge che se c’è una cosa, però, che una
donna che diventa madre non può più permettersi di fare è quella di impazzire.
Di essere un corpo senza equilibrio. Di essere, cioè, un corpo che cade.
Questo romanzo, sondando i limiti e le potenzialità
dei corpi, si fa genesi e generazione, aprendo spiragli di nuovo respiro come
nel caso delle co-madrie che nell'esperienza della tradizione spagnola sono le
donne che si fanno madri e salvezza delle altre madri. Ed è proprio questo il
bagliore, il luccichio che stende la sua luminosità tra queste pagine. Quello
che so di te diventa allora quello che so di me. E in quanto donne, quello che
sappiamo di noi. C’è un percorso narrante, infatti, che unisce i corpi di donne
lontanissime nella storia ma che contengono, una dentro l’altra, il destino e
la fortuna di tutte. È una Mitologia Familiare che si fa genealogia di donne
che al di là della maternità restano ancora figlie. Di donne che credono alle
altre donne. Che le mantengono sull'orlo dei precipizi. Donne che accettano la
fragilità del proprio corpo con tutte le sue contraddizioni. Donne che cantano
come una nenia, alle altre donne, che la tristezza, la malinconia, non sono una
colpa.
“Venera, io ti
credo –incalza Nadia Terranova in uno dei dialoghi immaginativi che ha con la
sua bisnonna- è andata così come dici, però ugualmente la colpa non è tua”.
Cadere allora può diventare un diritto.
Un diritto nostro. “Lasciateci –dunque- sperimentare
il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull'unica cosa che importa: non
cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo”.
Nota biografica: Manuela Monda osserva, immagina, scrive. Laurea in Lingue, Dottorato in filosofia. Insegna. Ha pubblicato diverse recensioni e traduzioni sulla rivista filosofica Segni e Comprensione, il saggio Profili femminili da nettificare, in Il Filo di Arianna. Materiali per la ricostruzione di un archivio della scrittura femminile salentina, il romanzo L’odore delle cose che ho perso, Bertoni Editore, La prefazione all’antologia Di pari Passo, Blitos edizioni, Poesie in Parole, Segni, Svolazzi di Collettiva Edizioni.
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