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RECENSIREMAGAZINE. Pulire i cessi a Zurigo, di Marco Patrone

Zurigo

A Zurigo i disoccupati sono meno del due per cento della popolazione totale, ma se non guadagni quattromila franchi al mese, come vivi? Un caffè al bar costa attorno ai cinque franchi, e possiamo ipotizzare che non tutti bevano caffè al bar, ma quello era l’inizio, cenare a un ristorante fare la spesa, comprare beni di prima necessità (pannolini, pane, latte) e mi ero reso conto che quella città avrebbe rivestito un ruolo marginale (almeno a livello temporale) nel mio Grand Tour Europeo, quel giro euforico e disperato, dopo il quale avrei considerato la soluzione finale: morte diretta (da valutare le alternative) o più probabilmente morte indiretta, questa sarebbe arrivata dopo bagordi, bevute, baccanali, morte per ingordigia, eppure in quella città non stavo facendo nulla di tutto ciò, anzi i miei giorni trascorrevano regolari in un albergo del centro, tre stelle, un po'rumoroso, 200 franchi per una camera singola.
La seconda notte ero stato svegliato da una ragazza americana che, sotto la mia finestra (presumo rientrando da un locale) urlava in continuazione – Oh my gosh, Oh my gosh, Oh my gosh. Mi ero reso conto di aver lasciato aperta una finestra, l’avevo chiusa, e la nottata era tornata tranquilla.

Avevo conosciuto Ann-Kathrine (i colleghi la chiamavano Ann, oppure Annie, o ancora Katy) la sera dopo, mi ero infilato in un sushi-bar lungo il fiume, mi sembrava promettente, mi aveva accolto una ragazza dal viso spiritoso e dai capelli corti, sfumati all’altezza della nuca, una specie di taglio a strati; le avevo detto “sono da solo” e aveva risposto “mai da solo”, proprio così, senza verbo, come se fosse stato il titolo di una canzone. Poi mi aveva dato un tavolo. Sorseggiando il secondo cocktail della serata mi ero perso nel tempo, leggendo un libro, finché non mi aveva chiesto se era tutto a posto (Intendeva se il cibo era stato di mio gradimento? La lingua che usavamo era straniera per entrambi). Avevo risposto di sì e avevo chiesto di pagare – lei aveva sorriso e detto che non era sua intenzione cacciarmi. Non ho molto da fare qui, avevo risposto, potrei rimanere finché non chiudete oppure, come sto per fare, andare e passeggiare finché non mi verrà sonno. Sei un turista? Sì, diciamo di sì (avrei potuto aggiungere “Un turista della fine”, ma sarebbe stato melodrammatico, e non mi veniva spontaneo in una lingua che non era la mia. Come suonava?). 
Le avevo chiesto di poter prenotare un tavolo per il giorno dopo – mi aveva chiesto se andasse bene un Kotatsu (uno di quelli bassi, avrei dovuto togliere le scarpe), le avevo detto che sarebbe stato perfetto, e così si era concluso questo primo tronco di conversazione.

Lasciavo mance generose, credevo fosse dovuto, viste le mie intenzioni mi interessava poco di impoverirmi, certo dovevo mantenere una gradualità, era per questo che avevo pianificato di rimanere ancora pochi giorni a Zurigo. I camerieri erano gentili, ma lo erano anche prima delle mance - e così Katy, al di là di quella sua battuta iniziale, che forse era un semplice voler-costruire-un-ponte tra sé e il cliente. Il secondo giorno le avevo detto che il nome Katy le stava meglio di Annie, e comunque meglio di Ann-Kathrine, che mi pareva un nome pomposo, più adatto a un'assistente di un consiglio di amministrazione, a un'impiegata di banca, tutte e due categorie ben rappresentate in quella città. 
“Un nome non dice tutto”, mi aveva risposto. “Forse non dice nulla, proprio nulla”. Le avevo chiesto se fossi stato inopportuno, mi aveva sorriso e aveva detto di no. Non rifletteva sul suo nome, andava bene Katy, Ann, Annie, anche Ann-Kathrine, un nome era un nome, una convenzione. Una formalità, avevo replicato. E lei – una convenzione.

Il giorno dopo ci eravamo visti al bar del mio albergo per bere un caffè insieme: era un posto raccolto, alternativo, da cui i turisti sembravano tenersi lontani (a parte me, ma il mio era un turismo di altra qualità). Le avevo detto una mezza verità: ero un giornalista, ma le avevo taciuto che in quel momento lo ero in senso personale e fuggitivo, e facevo una ricerca su venti città europee partendo dallo stato dei loro cessi pubblici e di quelli dei locali, ma non le avevo rivelato che questo compito, questo reportage, me lo ero assegnato da solo.
Quanto può guadagnare a Zurigo una persona che pulisce i gabinetti? (Non ricordo se avessi detto proprio persona, o se avevo usato la parola “donna”). Ho letto anche 4000 franchi al mese, nel paese da cui vengo sarebbe impensabile, è uno stipendio importante, molti miei colleghi “se lo sognano”. 
Quelli sono i dati ufficiali, aveva risposto, e non voglio dire che non siano veri. Ma cosa deve fare lei (aveva proprio detto “lei”) per guadagnare questo: forse lavorare la mattina nelle case private, e dal pomeriggio alla sera nei locali. Scusa l’espressione: pulire la merda di questa gente ricca che spende…hai visto il negozio qui fuori? Seicento franchi per dei Chelsea Boots e milletrecento per un soprabito.
Li ho visti. Sono persone nate per indossare quel soprabito. Quel soprabito dice – sono nato per lui, costo milletrecento euro. Io e lui ci apparteniamo. Lui è una persona-soprabito. Non importa che sia un bancario, un avvocato o un banchiere: basto io.
Aveva sorriso.
Io, mi aveva detto, guadagno 3800 franchi al mese. E le mance. Potrebbe sembrare poco, è poco, ma lavoro solo di sera. Ho il resto della giornata per me.
E cosa fai nel resto della giornata? No, lascia stare, è una domanda stupida.
Canto in un coro, aveva continuato ignorando il mio invito, dipingo. Prendo lezioni di arrampicata.
È che…il sistema, ero intervenuto, come dicevi tu. Pulisci la merda dei ricchi, per cosa? Per vedere cose che non ti puoi permettere. Io sono qui qualche giorno, mi dico, mi faccio dei calcoli. Dico, oggi spendo questo, domani quest’altro, questo lo evito, lascio una mancia. Tutto qui. Ma dopodomani riparto.

Io faccio così. Aveva preso il telefono, me lo aveva mostrato. Sullo schermo Onlylfans, e un profilo chiamato “Anouki”. Mi aveva fatto vedere alcune foto, con le mutandine, bianche, senza reggiseno. Un corpo compatto, meno androgino di quello che mi sarei aspettato (ma non ero preparato).
Ti risparmio le altre sezioni. Non vorrei imbarazzarti. Anche se non credo ci rivedremo più. Qualche volta accetto delle richieste. E se è il caso qualche incontro. Cose pulite, sto molto attenta, anche se poi non si può avere la certezza di cosa ci sia dentro o dietro il soprabito – aveva sorriso di nuovo.
Escort – se posso dire la parola.
Escort, servizio personale al cliente, non importa. È solo una parola. Se puoi guadagnare 3800 franchi a Zurigo col naso nei cessi dei ricchi, allora meglio rilanciare e prenderne altri 3000 per mettergli il naso nei coglioni.

In quel momento avevo capito (si dice sempre “in quel momento”, ma giuro che era stata un’epifania improvvisa, lo scatto secco di una serratura che si apriva su un senso) quanto ero vecchio e antiquato. Con tutta la mia prosopopea della fuga e del nulla da perdere e del viaggio finale, irrimediabilmente fuori dai tempi, fuori dal mio tempo o fuori dal tempo di Ann-Katrine (Anouki). Legato alle apparenze e ai percorsi lineari – anche la distruzione può esserlo, per come l’avevo pensata, per come sarebbe proseguita.

Avevo pagato per tutti e due, lasciando tre franchi di mancia, ci eravamo salutati ed ero uscito sulla strada, preparandomi a scegliere un ristorante per quell’ultima sera.

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