BREVE INDAGINE SUL FARE POESIA
Risulta impossibile fornire delle
indicazioni, sebbene generiche, sullo scrivere poesia oggi: mi pare infatti si
debba prestare anzitutto attenzione alle dinamiche di costruzione dell'io-mondo
prima ancora di indagare lo stile o la valenza del soggetto all'interno di un
testo. Come vedremo in questo breve articolo, uno dei problemi principali
riguarda, in effetti, la visione del mondo che si riflette nelle scelte
stilistiche e dunque, in prima istanza, lo sguardo dell'autore sul mondo.
Proporre una panoramica dei principali problemi legati al fare letteratura può
allora essere utile al lettore come allo scrittore, sia per imparare a
riconoscersi nel testo, sia per dare voce alla propria ferita interna
attraverso la scrittura: ciò non equivale al cadere nel mero sentimentalismo o
nella poesia confessionale, ma si traduce nel legame profondo tra scrittura
autobiografica e destini generali. Il portato tragico e insieme universale
della letteratura varrà allora come criterio per distinguere un buon testo da
uno meno buono. In questi risiede, a mio avviso, la qualità della scrittura.
Il primo problema che una corretta indagine intorno al fare poesia deve approfondire è interno al testo e riguarda la forma: l’impoverimento del lessico, il ricorso al poetese e alla retorica novecentesca dei buoni sentimenti, la difficoltà evidente che lo scrittore presenta a conciliare testo autobiografico e, per esteso, elemento narcisistico e momento gnomico-epistemologico, la riduzione del portato tragico del soggetto.
Un secondo problema è esterno alla poesia e riguarda
l’interpretazione o, meglio, la sovra-interpretazione: la mistica che la poesia
ha accumulato e continua ad accumulare (mi riferisco al potere salvifico insito
nella parola poetica) e la pretesa che un testo debba rimandare all’emotività.
Si tratta, a mio avviso, di restituire nello scritto la risposta a un impulso,
per rifarmi al Nietzsche della Geburt (1872). Si tratta, mi pare, di una questione
fisiologica e, insieme, epistemologica).
Il terzo problema riguarda il pubblico
della poesia: tutti scrivono poesie e, pertanto, desiderano esprimere il
proprio ego, amplificarlo; e, tuttavia, la mancata restituzione di una visione
del mondo attraverso il testo rischia di alimentare l'ipertrofia dell'io, il
riferirsi a canoni e criteri interni. A ciò si aggiunge il fatto che molti di
questi poeti, non leggono poesia, specialmente quella dei coetanei.
Un quarto
problema inerente alla scrittura di poesie deriva dal fatto che non siamo
abituati a pensare la poesia come a una parte della letteratura, un accidente
che inerisce alla pratica letteraria, un genere letterario senza alcuno statuto
speciale.
Occorre precisare che la restituzione di una visione del mondo, sia essa in versi o in prosa, per quanto parziale, e è il mezzo attraverso il quale ci si riconosce come parte di un intero, si tenta cioè di superare la frattura tra parte e tutto, pur costituendo i poeti e i lettori di poesia una nicchia. Da ciò deriva un quinto problema, ovvero, il fatto che lo stile, la forma dovrebbero riflettere il modo in cui guardiamo il mondo, essendo lo sguardo sul reale di cucitura o taglio. Da notare che quale che sia un tale sguardo, esso non ha a che fare con l'autenticità dello scrittore o della scrittura, si tratta semmai di riconsiderare il modo di intendere il rapporto tra forma e mondo, rendere conto della dialettica forma/mondo perché non ci sia separazione tra forma e visione del reale. In ultimo, nonostante la poesia (e più in generale la letteratura) sia anche un modo di affermare la propria singolarità, dal momento che si fa specchio della percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri, sarebbe ingenuo e, invero, pericoloso relegare la pratica della scrittura nell'autoreferenzialità e nella conseguente ipertrofia del proprio ego. La letteratura dovrebbe infatti avere a che fare con l'universale rintracciabile nei destini, a cominciare dai comportamenti, ma soprattutto dalle dinamiche umane, troppo umane cui sono legate le biografie dei singoli.
A quanto finora detto, si aggiungono due
elementi ulteriori e più specifici. Da un lato, la tendenza ad attribuire un
valore emotivo al testo letterario agevole l'idea che la letteratura in
generale e la poesia possano essere terapeutici. Dall'altro lato, il
considerare la scrittura autobiografica come cardine della scrittura in versi,
tralascia un elemento a mio avviso imprescindibile, ovvero, la connessione tra
biografia e universale, tra storia privata e personale e destini generali. In
ultimo, occorrerebbe soffermarsi sullo sguardo e la conseguente presa sul reale
che chi fa letteratura assume: a prescindere dalla nozione scivolosa di
autenticità, qual è il rapporto sta scrittura e realtà? E, anche, quali sono i
modi di attribuzione del senso a una
realtà che pare rifuggire ogni classificazione?
Mi pare poi che la tendenza ad attribuire un valore emotivo al testo letterario oltre ad agevolare l'idea che la letteratura in generale e la poesia nello specifico possano essere terapeutici, generi un equivoco riguardante il soggetto della letteratura. Viene infatti a mio avviso reiterata la convinzione della liceità di una retorica, direi novecentesca, dei buoni sentimenti, la quale si presenta pericolosa per almeno due ragioni. Da un lato, essa veicola un paradigma platonico della virtù, sia nelle intenzioni dell'autore, sia nella forma testuale. Dall'altro lato, la collezione dei comportamenti virtuosi non solo del soggetto, ma anche dell'autore alimenta l'errata sovrapposizione tra soggetto della finzione letteraria e individuo che dice io e mette la firma sul libro.
Mi pare poi che la tendenza ad attribuire un valore emotivo al testo letterario oltre ad agevolare l'idea che la letteratura in generale e la poesia nello specifico possano essere terapeutici, generi un equivoco riguardante il soggetto della letteratura. Viene infatti a mio avviso reiterata la convinzione della liceità di una retorica, direi novecentesca, dei buoni sentimenti, la quale si presenta pericolosa per almeno due ragioni. Da un lato, essa veicola un paradigma platonico della virtù, sia nelle intenzioni dell'autore, sia nella forma testuale. Dall'altro lato, la collezione dei comportamenti virtuosi non solo del soggetto, ma anche dell'autore alimenta l'errata sovrapposizione tra soggetto della finzione letteraria e individuo che dice io e mette la firma sul libro.
Sorge allora un interrogativo fondamentale per tentare di uscire dall'impasse: si può fare letteratura con i "buoni sentimenti"?
In caso di risposta positiva, l'indagine si arresterà a
questo punto e sarà ritenuto lecito veicolare appunto quel paradigma platonico
che si colloca a metà tra il razionalismo criticato da Nietzsche e quello che
in filosofia viene definito intellettualismo etico (si commette il male se si
ignora il bene, in questo caso si scrive male se si ignorano i presupposti che
regolano le rette azioni e i retti pensieri).
In caso di risposta negativa e a
seconda delle declinazioni dell'indagine successiva, si dovrà ammettere che una
tale retorica, ma soprattutto il suo portato, siano perlomeno insufficienti
quando non dannosi, a garantire una corretta impostazione del problema intorno
a letteratura e verità. "E perché non la menzogna?" scriverebbe
Nietzsche.
Commenti
Posta un commento