COME FOSSE UNA CONOSCENZA
Recensione di Valentina Murrocu
La raccolta Punu di Silvia Tripodi si colloca chiaramente nel solco della “poesia di ricerca”, rimodulando e, per questa ragione, superando l’opposizione obsoleta tra lirica e prosa, «a scanso di prosa a scanso di prosa», per usare le parole dell’autrice: ciascun testo del libro si presenta infatti come somma di asserzioni o, meglio, come massa di asserzioni che «non si decide a posarsi/in luogo de fatti del mondo», come se la conoscenza o la non conoscenza del mondo fosse mediata da un’ Iper-assertività che emerge non tanto nella singola proposizione, ma nel rapporto tra proposizioni: «quasi al silenzio dello spettatore/dalle parti dei minuscoli oggetti/ dalle cose chiamate cose»; «più grandi delle cose poco più/grandi della famiglia delle cose stesse/minuscole tra lo scuro caldo/delle consonanze»; «ai questi ai quelli ah/adatti a indicarne il luogo di provenienza dal quale/siamo certi siamo certi»; «le sue proprie/remote alla notte nei pressi di oggetti molto piccoli/tagliati da ombre grandemente fatte/a opera di alcune masse poggiate sulla terra».
Se il soggetto in senso tradizionale e novecentesco si mantiene inespresso e potenziale («Colmo di rabbia si avvia l’uomo tra le cose/pieno di una gioia che è tutta nell’impianto di denominazione di esse»; «non sei adatto alla vita immaginaria/ne hai una reale e una potenziale/l’amore le fa fuori tutte in un colpo solo») un soggetto esiste e si configura come relazione, il soggetto-che-dice-io è un darsi nella combinazione/reiterazione di proposizioni, di soggetti, di forme di avvicinamento alla conoscenza tragica («dal di fuori dal di dentro della persona/in fondo alla vita stessa della persona»; «le forme della rappresentazione coatta di cognizione/questo elenco di libri di saggi di letture recenti/questo denominare a propria cultura il sapere/conciato de terra de cuoiami a feticismo de occhi»).
L’insieme dei testi comunica allora una forma di violenza, la quale implode nel darsi del verso («così non reggono la cosa/può essere scoperchiata da un momento all’altro»; «l’indifferenza non è il profitto/del beato sogno degli oggetti piccoli/o di quelli grandi è quella cosa chiamata bara/o letto di morte/che forma consonanze dirette e indirette»), un dolore acuito dalle relazioni con gli altri («forse abbiamo dormito nella stessa stanza/dove dormì Pasolini poco prima di morire»; «il fiore che sboccia come promessa/accoglierà ogni passo nel ritorno nel ritorno»), ma soprattutto una volontà di osservare la violenza dall’esterno, come non riguardasse più alcun soggetto, come se l’unico soggetto tangibile, reale e possibile fossero il dolore, la violenza stessa («ripeti la frase/per chiudere disagio e discorso/per negare un giusto abbandono/che quanti sono esodati ci hanno per pena/lasciati indietro o davanti una vasta landa/da occupare»; «e che questo non è il punto di convergenza del male/della non messa in fermo della cognizione del dolore»; «fanno del verde nessuna difesa solo ragione/per vita nella vita e delle sue forme»).
Se il soggetto in senso tradizionale e novecentesco si mantiene inespresso e potenziale («Colmo di rabbia si avvia l’uomo tra le cose/pieno di una gioia che è tutta nell’impianto di denominazione di esse»; «non sei adatto alla vita immaginaria/ne hai una reale e una potenziale/l’amore le fa fuori tutte in un colpo solo») un soggetto esiste e si configura come relazione, il soggetto-che-dice-io è un darsi nella combinazione/reiterazione di proposizioni, di soggetti, di forme di avvicinamento alla conoscenza tragica («dal di fuori dal di dentro della persona/in fondo alla vita stessa della persona»; «le forme della rappresentazione coatta di cognizione/questo elenco di libri di saggi di letture recenti/questo denominare a propria cultura il sapere/conciato de terra de cuoiami a feticismo de occhi»).
L’insieme dei testi comunica allora una forma di violenza, la quale implode nel darsi del verso («così non reggono la cosa/può essere scoperchiata da un momento all’altro»; «l’indifferenza non è il profitto/del beato sogno degli oggetti piccoli/o di quelli grandi è quella cosa chiamata bara/o letto di morte/che forma consonanze dirette e indirette»), un dolore acuito dalle relazioni con gli altri («forse abbiamo dormito nella stessa stanza/dove dormì Pasolini poco prima di morire»; «il fiore che sboccia come promessa/accoglierà ogni passo nel ritorno nel ritorno»), ma soprattutto una volontà di osservare la violenza dall’esterno, come non riguardasse più alcun soggetto, come se l’unico soggetto tangibile, reale e possibile fossero il dolore, la violenza stessa («ripeti la frase/per chiudere disagio e discorso/per negare un giusto abbandono/che quanti sono esodati ci hanno per pena/lasciati indietro o davanti una vasta landa/da occupare»; «e che questo non è il punto di convergenza del male/della non messa in fermo della cognizione del dolore»; «fanno del verde nessuna difesa solo ragione/per vita nella vita e delle sue forme»).
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Informazioni sul libro
Silvia Tripodi - Punu
76 pagine
Arcipelago Itaca 2018
Attualmente in commercio
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