ROMANO CRIMINALE
Il motivo scatenante per cui mi ero interessato a Il più grande criminale di Roma è stato amico mio di Aurelio Picca risale a una bella recensione di Edoardo Nesi (suo ex-compagno di scuderia) sul Corriere Lettura di qualche tempo fa; il motivo per cui l'ho letto in questo periodo va cercato nella mia fascinazione romano-criminale per La città dei vivi di Nicola Lagioia, letto nel Dicembre del 2020.
Si tratta di due libri ovviamente molto diversi: attuale, spompata, esacerbata e sempre pronta a metterti le mani in faccia la Roma di Lagioia, ancora e in qualche modo innocente, bastarda, agra, primitiva, verace quella descritta da Picca, quella degli anni '70-'80 dove si muoveva Lallo lo Zoppo (vero nome: Laudavino de Sanctis).
Lallo è il criminale del titolo ed è l`amico di chi nel libro narra in prima persona, un suo antico tirapiedi e sopravvissuto, nel quale in un gioco volutamente ambiguo possono riconoscersi le fattezze di Picca stesso (allo scrittore non manca certo il physique du role, e mi pare ci marci sopra molto consapevolmente).
Non sappiamo quanto della biografia di Picca vi sia nel libro (sperabilmente poco), ma certamente uno dei suoi pregi è di essere un'opera vibrante, ruspante e sentita: siamo lontani dall'epica malvagia di Romanzo Criminale, e anche da quelle commistioni - tipiche di certo giallo italiano - tra malavita e altri e superiori livelli (la politica, i grandi vecchi eccetera). Quelli come Lallo delinquono per mestiere, hanno un certo gusto del "lavoro fatto bene", sanno fare solo quello, sono attenti agli status symbol del caso (auto, armi, anelli, vestiti) e mantengono un pur contraddittorio senso dell'onore.
Per descrivere la vicenda propria e quella di de Sanctis Picca dona al narratore interno una lingua da "borgataro istruito", torrenziale, pure essa ruspante, un effetto da racconto-così-come-viene evidentemente frutto di mimesi (ovvero: una scelta dell'autore), seppure qualche volta si ecceda in lirismi e similitudini un po' stucchevoli. D'altra parte una certa romanità "bassa" si respira fin dal titolo, credo che Roma sia l'unico posto in cui si dica "amico mio" invece che "mio amico", un segno distintivo, un simbolo di appartenenza linguistica. E questo livello, nel complesso, funziona.
Meno azzeccata la scelta - forse un vezzo o una necessità di Picca - di comprendere nel tono memorialistico del romanzo delle vere e proprie (brevi, per fortuna) tirate sull'attualità: i migranti, Salvini, la Roma di oggi, i tic dei ggiovani, che pur teoricamente coerenti con il tipo di narrazione e atteggiamento, sembrano perlopiù corpi estranei nell'economia del libro (forse andavano lasciati fuori o con un po' di coraggio estesi aumentando la confusione tra voce narrante/narratore interno e scrittore).
Voglio far tornare questo termine per la terza volta: ruspante; si tratta di un libro effettivamente imperfetto, strutturalmente un po' storto (personaggi e spunti interessanti lasciati cadere, finale molto frettoloso), ma divertente e verace come la provincia romana che descrive - a proposito, molto felice anche la topografia di queste periferie selvatiche, estenuate e a tratti vigorose, suggestive, l'ideale contraltare alla Roma metropolitana che "si sta facendo".
Un libro particolare e piacevolmente sgarruppato, non il capolavoro di cui parlava Nesi, ma certamente gradevole e in qualche modo "complementare" al tiratissimo reportage-romanzo di Lagioia.
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Informazioni sul libro
Aurelio Picca - Il più grande criminale di Roma è stato amico mio
Ed. Bompiani 2020
256 pag.
Attualmente in commercio
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