SÌ O NO? LA RISPOSTA E QUANDO E PERCHÉ
Premessa: ospito un articolo molto acuto di Giulio Milani, originariamente pensato per il Blog Wildworld, operazione acuta, a cui partecipo, con lo scopo di movimentare con pareri poco mediati e allo stesso tempo fondati il mondo a volte un po´paludato della discussione editoriale. Buona lettura, come si suol dire (credo peraltro sia l´articolo più lungo e dotto mai ospitato in questo Blog).
***
di Giulio Milani
(scrittore, editore di Transeuropa, talent-scout, agitatore culturale, mio ex-compagno di classe del Liceo).
Gli agenti letterari, nel nostro paese, si sono diffusi con più
forza soprattutto a partire dagli anni novanta e per motivi ben precisi. Prima
c'era solo il leggendario Erich Linder, che lavorò per l'Agenzia Letteraria Internazionale fin dal 1950. Non aveva rivali, a parte pochi
concorrenti, ed ebbe l'innegabile ruolo di imprimere un'accelerazione negli
anni sessanta/settanta, quando «il sistema editoriale stava completando il
passaggio definitivo dall'artigianato all'industrialesimo».[1] Per lui, la produzione di libri non faceva parte di
un otium disinteressato da sistema gentilizio, quanto di «un negotium,
un lavoro produttivo qualificato, da inserire nel mercato librario e da
remunerare in misura adeguata ai profitti che l'editore possa ricavare».[2] Una rivoluzione culturale, dunque, e per certi versi
una bestemmia, nel tempio umanistico che ha sempre visto il letterato estraneo
ai fini di lucro e ha imposto l'ideologia rentier del «vissi d'arte, vissi
d'amore» anche alla civiltà urbano-borghese. L'egemonia di Linder era dovuta al
fatto di operare, con criteri capitalistici internazionali, in un mercato
ridotto ma d'improvviso aperto alle novità come quello italiano del secondo
dopoguerra. Già nel '58 amministrava settemila autori; nel '79, diecimila. Sul
suo tavolo si rovesciava una media di duecento titoli nuovi la settimana, ma i
suoi principali clienti resteranno quasi sempre autori stranieri: nel novero
degli italiani troviamo nomi come Leonardo
Sciascia, Giorgio Bassani,
Riccardo Bacchelli, Mario Soldati, Elsa Morante, Alberto
Arbasino, Romano Bilenchi.
Dunque parliamo di un agente letterario che operava soprattutto per la
cosiddetta «editoria di cultura»[3]
e per il mercato estero: era difficile, improbabile, che potesse rappresentare
un autore esordiente o poco conosciuto in Italia, poiché il suo obiettivo era
quello di vendere all'estero i diritti di autori nazionali affermati, mentre il
vero scouting consisteva nella ricerca di autori stranieri da proporre sul
mercato interno: qui, tutto all’opposto di quanto accadeva con gli autori
nazionali, Linder lavorava coi meno conosciuti, visto che quelli affermati li
trattava direttamente l’agente straniero con l’editore italiano. Fino ai
sessanta le pratiche per l'acquisizione e la traduzione di opere straniere
erano in generale lunghissime, macchinose, affidate esclusivamente agli editori
– che di solito erano nel contempo proprietari, gestori, e direttori editoriali
della casa editrice, tre funzioni oggi per lo più divise – e prive di grosse
garanzie, per tutte le parti in rapporto. Poi arriva Linder e il cambiamento ha
inizio. Con il portafoglio di autori internazionali che acquisisce man mano, ha
la forza contrattuale per condizionare gli equilibri italiani. Arriverà a
controllare il 7 % del mercato e perfino a stabilire i ruoli culturali di
ciascun editore: la Mondadori per i best seller di grande livello, come Gallimard
in Francia; Rizzoli per la letteratura medio-bassa; Adelphi
ed Einaudi per le cose più raffinate; Feltrinelli
per le pubblicazioni di sinistra. Otteneva il rispetto delle consegne, non
sempre gradite, grazie al suo potere, ossia un misto di seduzione e deterrenza,
che rendeva il suo ruolo non dissimile da quello che svolge oggi la promozione,
e in parte la distribuzione: l'«editore ombra». Il settore, d'altronde, in
Italia era costituito da tre o quattro grossi gruppi a conduzione familiare –
ovvero compagini assai fragili anche in rapporto alla continuità d'impresa
transgenerazionale, vecchio problema dell'imprenditoria italiana – in alcuni
casi eredi di imprese economiche più floride, come i Feltrinelli;
per il resto, lo popolavano famiglie di librai-stampatori-editori che avevano
fatto fortuna con le bancarelle da ambulanti o le tipografie, come da
tradizione lunigianese.[4]
Dall'altra parte della barricata non c'erano solo gli editori, ma
anche un intero apparato di «letterati editori»[5] che costituiva il nucleo pensante di una
trasformazione avvenuta un secolo prima, quando l'intellettuale borghese scoprì
l'industria editoriale e vi individuò il mezzo per portare avanti la propria
«missione letteraria» e non sfigurare davanti alla dignità del nobile, che col
lavoro in generale non si sporcava, figuriamoci con un ripiego. Bisognava
vivere di sola scrittura, per essere dei veri scrittori, e nello stesso tempo
rinunciare alla «sirena del mercato» che ottunde «la musa dell'ispirazione»,
secondo la nota espressione crociana. Un bel dilemma. Che venne appunto risolto
con un compromesso alla Papini: entrare nell'industria editoriale, magari fondando
una casa editrice alternativa a quelle commerciali, sul modello Gallimard,
e manovrare da lì.[6] Vittorini,
Pavese, Sereni, Calvino, non sono solo i nomi di una stagione irripetibile
della ricerca letteraria in Italia, ma anche l'emblema di un modo di
«perseguire la missione» con altri mezzi di mantenimento, quelli editoriali. In
questo ecosistema esilissimo, fatto di autosfruttamento, diritti mai pagati,
autori e traduttori che vivono ai limiti della povertà, come nel romanzo La vita agra
di Luciano Bianciardi, o che vivono di altri proventi perché dalle
royalties dei propri libri non ricavano nulla, Linder si inserisce con la
grazia di un carro armato. Lo scopo è nobile, nobilissimo: proteggere gli
autori dalla posizione di potere dell'editore, sopperire alla difficoltà degli
editori italiani nel vendere i diritti dei propri autori all'estero e aiutarli
nella ricerca di nuovi titoli stranieri da vendere in Italia; garantire
all'autore condizioni contrattuali favorevoli dal punto di vista economico e
sotto il profilo della carriera letteraria. Il problema è che il potere, in
questo modo, non passa dall'editore all'autore, ma dall'editore
all'intermediario. Le competenze degli autori in fatto di industria editoriale,
d'altra parte, non sono mai state il massimo, allora come oggi, e diventano
pressoché inutili quando sei disposto ad accettare qualunque capestro pur di
accedere alla pubblicazione presso un catalogo di rilievo. Dunque la
rivoluzione, grazie a Erich Linder, riesce solo a metà: gli stessi editori
inizieranno a consigliare agli autori di mettersi nelle sue mani per evitare
controversie – il che dimostra la natura complementare, non dialettica,
dell'agente letterario rispetto alle esigenze del mercato – e nel frattempo il
potere decisionale di Erich Linder cresce in modo esponenziale: già nel 1955
coordinerà l'operazione, tra Mondadori ed Einaudi, diretta a scongiurare il
tracollo finanziario di quest'ultima.[7]
Di qui l’epiteto di «Metternich della letteratura».[8] Nel decennio successivo, raddoppia il numero di
famiglie in cui si leggono libri e triplicano le spese per cinema, giornali e
periodici. Sono gli anni del “boom economico”, che segna anche per il mercato
del libro un incremento del 43,4 % solo dal ‘56 al ‘60.
Nel 1983, alla morte di Linder, la situazione è di nuovo in una
fase di passaggio. All'estero è il momento delle multinazionali, che fanno
incetta di grandi marchi «pur senza sapere esattamente cosa farne. E anche qui
da noi il pericolo acquistava sempre maggiore attendibilità via via che
s'infittiva l'avvento, nelle case editrici a conduzione familiare – ora a
sconquasso societario – dei manager delle industrie che presumevano di
salvarle».[9] Con
l'ingresso dei manager nella gestione del conto economico editoriale, le
strategie prevedono l'impiego sempre più spinto della pubblicità e quindi
l'investimento sicuro sul nome noto e sul tema di successo – oggi, addirittura,
propagandano il “quorum di sbarramento” per i soli libri da cinquemila copie in
su di fatturato –, producendo così un'immediata contrazione dei margini di
ricerca, che viaggiano da allora in avanti sempre più sulle frequenze
dell'epigonalità e dell'omologazione. Il sistema editoriale, in quegli anni, è
destinato a cambiare radicalmente. Pier
Vittorio Tondelli si inventa e dirige la collana
“Mouse to mouse” per Bompiani e lavora con Elisabetta
Sgarbi alla rivista Panta,
ma un progetto come le antologie di esordienti Under 25 riesce a realizzarlo
solo con Transeuropa (gratuitamente, se si eccettua il regalo di un paio
di Mac dismessi), e siamo nel 1986. Ora, Tondelli era figlio di piccoli
commercianti, laureato al Dams, non aveva rendite e non faceva l'insegnante né il
giornalista, anche se aveva tentato alcune collaborazioni: rappresenta una
figura emblematica, per il suo desiderio di vivere di scrittura e per
la sua nozione di impegno non ideologizzato, non diversa da quella
di Luciano Bianciardi nei sessanta. Tondelli ha ripreso gli argomenti che di
seguito trovate esposti anche in alcune celebri pagine di Camere separate (p. 93 e sgg. dell’edizione tascabile Bompiani), dove il
protagonista, lo scrittore esistenzialista/proustiano Leo, si rimproverava per
aver ottenuto determinati oggetti di cui si era circondato nel tempo vendendo
la sua scrittura, le sue parole, a questa o a quella rivista, a questo o a
quell’editore. Vi invito a (ri)leggerlo con attenzione perché riprende e
risponde a polemiche cicliche. Potreste infatti divertirvi a incrociare questo brano di Franz Krauspenhaar del 2008
con quanto Tondelli sosteneva, ancora e ancora, al convegno di Ancona
“Narratori ’90”:
«Poiché infine cos’ha voluto fare, questa nostra generazione,
questo gruppo di narratori degli anni Ottanta? Credo, innanzitutto, che abbia
voluto riscoprire la figura dello scrittore puro. Cioè la figura e il ruolo
d’una persona che ha scelto di vivere scrivendo e che, in certa misura, vuole
persino dar conto di tale scelta nei propri libri. Vivere, scrivere e
raccontare. Vivere, scrivere e raccontare non certo ricercando posizioni di
potere nei giornali, o all’interno delle accademie, dentro le nostre università…
Vi sto parlando di una cosa che tutti voi conoscete. Vi sto parlando di questo
scrittore più o meno giovane che innanzitutto sta cercando di mantenersi col
proprio lavoro. Ebbene, questa a mio giudizio è una delle cose che ultimamente
da più fastidio a una certa critica – gli ultimi del Gruppo 63 e
alcuni altri ancora. Una certa critica che dice “dopo di noi il romanzo è
morto!”, e alcuni altri che dicono “i veri romanzi del nostro Paese li sta
scrivendo il Censis!” e non accettano, e non accetteranno tanto
facilmente che dopo un paio di decenni da determinate prese di posizione, ci
siano dieci o venti o trenta persone che guarda caso proprio riprendono a
scrivere romanzi. Dieci o venti o trenta persone che, guarda caso, hanno anche
un pubblico, non solo degli editori disposti a portare avanti il loro lavoro,
ma anche un pubblico che li segue e permette loro di vendere dei libri, di
provare a vivere di questo mestiere. Quando Sanguineti dice che per
lui e i suoi amici del Gruppo 63 sarebbe stato un insulto scrivere anche solo
una pagina da cui i produttori di Hollywood o Cinecittà avrebbero potuto trarre
lo spunto per un film – con tutto che Sanguineti ha scritto un romanzo bellissimo
come “Capriccio italiano” ed è un intellettuale che personalmente stimo… Ce ne
sarebbero, voglio dire, di elementi su cui discutere. Questa nostra
generazione, nel bene o nel male, persino nell’apparizione d’una certa fatuità,
ha avuto il merito di rimettere in gioco l’idea del romanzo – una fra le tante
o mille idee di scrittura romanzesca, noi l’abbiamo rimessa in gioco. I generi
letterari, per esempio. La ripresa dei generi. Il noir, per esempio. Chandler
e altri vecchi e ironici maestri ancora. Ossia ha rimesso in gioco una
scrittura romanzesca volta a volta ironica, di citazione, oppure, tramite altri
giovani narratori e amici che oggi vedo seduti in questa sala, una scrittura
romanzesca d’impianto eminentemente realistico.»[10]
Per concludere, sprovvisto di una rete di protezione economica,
politica o religiosa in caso di insuccesso o malattia, così Tondelli raccontava
il suo modo di stare a galla nonostante fosse un autore affermato:
«C’è stato un periodo nella mia vita in cui era abbastanza consueto
che una mattina prendessi un aereo, partecipassi a una conferenza e me ne
tornassi a casa con un po’ di soldi. Lo stress era notevole, ma in caso di
difficoltà funzionava. Ultimamente, a dicembre, sono stato a Marsiglia.
Ho chiesto cinquecentomila lire per un mio intervento. La signorina che doveva
curare l’incontro fra me e gli altri scrittori mi fece capire al telefono che
forse non era il caso. Disse proprio questo: “In fondo essere pagati per
parlare di se stessi…” Io replicai: “Lei non sa quanto mi costi e quanto poco
mi interessi.” Lei disse: ”Proverò.” Il giorno dopo, la responsabile della
libreria telefonò, dicendo che mi avrebbe dato il denaro e che comunque non le
sembrava giusto negarlo agli scrittori che non l’avevano richiesto. E così tutti
si sono trovati con questa somma, anche la coordinatrice. Dovrei fare il
sindacalista, no? Penso che sia una forma di ipocrisia, di cattiva coscienza e
di maleducazione pretendere un intervento spontaneo da parte di uno scrittore.
Quello dello scrittore non è un lavoro che rende. E la miseria, la povertà non
sono condizioni feconde per scrivere.»[11]
I problemi sono gli stessi di oggi e soprattutto la possibilità di
vivere di scrittura rimane un fatto altrettanto raro e complesso. Ma Tondelli,
per quel che qui importa, non aveva un agente letterario. Si è sempre affidato
ai consigli del suo primo editor in Feltrinelli, Aldo Tagliaferri,
con cui rimase in contatto, anche epistolare, all'incirca dal 1978 al 1989,
quindi ben dopo il passaggio da Feltrinelli a Bompiani. Poi, negli anni
novanta, anche la distribuzione si adegua al cambiamento industrialista, a
partire dalle librerie di catena Feltrinelli, che sostituiscono la competenza
del librario alla Romano Montroni con il turn over delle novità imposte dall'alto,
secondo criteri economicisti.[12]
Per chi, tra gli autori, abbia bisogno di rimpolpare gli esigui e incerti
guadagni editoriali è sempre aperta la possibilità di collaborare con gli
editori nella veste di direttori/curatori di collana e traduttori, ma questi
spazi si vanno riducendo perché i grandi marchi preferiscono appoggiarsi sempre
più a figure interne, allevate in
house e meglio controllabili. Se
insomma la distribuzione si allinea sul sistema della catena di montaggio delle
novità, la produzione sviluppa il funzionariato editoriale, che è un tutt'uno
con l'esigenza di specializzare le competenze e liberarsi di ogni mancipio
intellettuale per guardare al mercato in piena autonomia. Per una forma di
bilanciamento naturale – ossia per dare prestigio ai propri cataloghi e pescare
nelle riserve abbandonate dai più grossi – le direzioni di collana si
moltiplicheranno, invece, presso la piccola editoria di ricerca. Se ci fate
caso, la situazione è ancora questa: solo la piccola e media editoria
letteraria presenta ancora collane con una direzione, i gruppi editoriali più
importanti hanno (ereditato) le collane ma con nessuna figura di prestigio al
vertice. Gli autori, invece, si reinventano il più delle volte come maestri di
scrittura creativa, conferenzieri, direttori di festival, personaggi tv, oltre
a ricoprire le “vecchie”, tipiche mansioni del «letterato editore»: editor,
traduttore, lettore di manoscritti, ufficio stampa e commerciale.
Negli ottanta, quando i salotti letterari han perso la loro forza
di persuasione (e quindi di intermediazione) nei confronti degli editori –
l'ultimo caso noto di cooptazione, in termini emblematici, è quello di Andrea De Carlo
– le strade per accedere a una pubblicazione di rilievo sono cresciute di
numero, ma anche di complicazioni. In primo luogo, il ruolo e la funzione dei
salotti letterari si va spacchettando: da una parte c'è l'apprendistato
letterario, che può avvenire grazie ai buoni uffici di un editor, di una
rivista di autori, di una scuola di scrittura o di un agente letterario con le
relative competenze; e poi c'è l'intermediazione editoriale vera e propria, che
consiste nel trovare il contatto giusto per presentare il proprio lavoro a un
editore: oggi questa funzione può essere svolta dal sistema sempre più diffuso
delle pubbliche relazioni, dove un qualunque addetto ai lavori può rivelarsi il
gancio per essere presi in considerazione. Gli spazi di pubblicazione sono
amplissimi, al contrario di quanto si dice, rispetto al passato, e se è vero
che il livello d'istruzione complessivo ha prodotto una forte concorrenza, il
problema, oggi come ieri, non è pubblicare, ma trovare un pubblico. E l'agente
letterario, da questo punto di vista, non cambia la sostanza della questione:
esattamente come Linder, inizierà a rappresentare un autore solo quando
l'autore abbia già trovato un pubblico, altrimenti domanderà un compenso anche
solo per leggere il manoscritto – a Milano, intorno ai 490 euro per fare la
lettura delle criticità di un libro di duecento pagine, a cui segue un
cortesissimo rifiuto. Dunque la “scelta” dell'agente letterario non è mai tale:
il più delle volte è possibile solo quando il numero di pubblicazioni, il
valore del nome, il venduto dei libri o la vendibilità di una determinata
storia o di un determinato genere fanno crescere le quotazioni di un certo
autore – anche all'improvviso, come nel caso del proposal de Le otto montagne di Paolo Cognetti, messo all'asta dall'agenzia Malatesta, narra la leggenda, prima ancora che il libro venisse scritto (ma
non pensate di poterlo emulare: prima di fare un'asta solo su proposal dovete
avere il curriculum di pubblicazioni di Cognetti e la relativa affidabilità di
esecuzione). In questo senso, trovare un agente letterario quotato – ossia in
possesso di un portafoglio clienti di rispetto, che ne strutturi la forza
contrattuale – ha lo stesso grado di difficoltà, per un autore esordiente o
emergente, che trovare la via della pubblicazione per un editore di rilievo.
Anche perché l'uno, come si è visto, è l'altro nome dell'altro, legati come
sono da un rapporto di complementarietà industriale. E nel frattempo, l'autore
che fa, come vive? Il più delle volte, si trova un lavoro di ripiego.
Insegnante, molto spesso, specie se laureato nel comparto umanistico, oppure
giornalista; impiego che nel 2019 come nel 1919 «non risolve la dicotomia
artista-puro/lavoratore-intellettuale», ma può soddisfare dal punto di vista
economico e soprattutto può ancora «far intravedere la possibilità di
recuperare quel ruolo di maître à
penser»[13] che l’avvento di una società industrializzata ha
fortemente appannato. Qualunque altro lavoro trasformerà invece l’autore,
spesso e alla lettera, in un cosiddetto “scrittore della domenica”:[14] scriverà prevalentemente nei ritagli di tempo, e
magari manderà i manoscritti alle case editrici durante le festività, quando
gli uffici sono chiusi. In questa condizione, quella dell'agente letterario
rappresenta l'ultima delle preoccupazioni.
Se invece l'autore ha già pubblicato, sta pubblicando, comincia ad
avere un pubblico, è utile o no trovarsi un agente? Io direi che è utile se
l'autore ha bisogno di soldi (ma non è disperato, i disperati non vengono presi
in considerazione per statuto) o intende sfidare la lotteria del successo con
qualche numero. O più semplicemente se l'autore, per cultura, per genere
letterario, per ambizione, fa propria un'ottica mercantinzia o
semi-imprenditoriale del suo lavoro (nessun imprenditore serio potrà mai
occuparsi di editoria letteraria, sia chiaro, né si potrà mai considerare
l'arte un lavoro, visto che è un lusso da privilegiati). In tutti gli altri
casi, meglio proseguire come si è fatto fin lì. Anche perché l'agente
letterario, in generale e salvo eccezioni, persegue un interesse economico e
dunque cercherà di ottenere dall'editore sempre il massimo possibile per
ritagliarsi la propria percentuale – di solito, intorno al 20 % – ciò che può
mettere in seria difficoltà l'autore, al giro successivo, nel caso il venduto
non abbia rispettato le profezie di autoavveramento dell'agente. Sempre più
raro, infatti, e proprio a causa della specializzazione del mercato, è trovare
agenti che abbiano le competenze o la sensibilità intellettuale (la prudenza?)
per accompagnare l'autore non solo o non tanto all'acquisizione del contratto
più profittevole, ma soprattutto nel pensare i libri e nello scegliere
l'editore più adatto quando si apre la possibilità di una carriera.
Note al testo
1. Vittorio Spinazzola, “Erich Linder. Un intellettuale
di tipo nuovo” in L'agente letterario da Erich
Linder a oggi, Edizioni Sylvestre Bonnard,
2004, p. 17. ↑
2. Ibidem.
↑
3. L’«editoria di cultura» appartiene a una stagione
ormai pressoché tramontata, che risale all’epoca della militanza politica,
religiosa o del mecenatismo. L’editoria di cultura è un’editoria che vive del
«lavoro benevolo» del militante oppure del sostegno di un «committente
illuminato e munifico». Ciò che gli sopravvive è la cosiddetta «editoria
letteraria» (seguo Gian Carlo Ferretti e la sua Storia dell’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni duemila). L’editoria letteraria fa
ricerca, continua a fare ricerca, per certi versi è quasi favorita nella
ricerca dal fatto che l’editoria generalista o commerciale non la fa più o la
fa sempre meno, ma ha comunque il problema di doversi confrontare col mercato.
Con la follia di un mercato costituito ormai quasi al 60 % da catene librarie
che appartengono alla grande distribuzione organizzata (GDO), mentre le
librerie indipendenti calano di numero o perdono quote di mercato ogni anno.
Per fare un esempio: qualche tempo fa Feltrinelli ha lanciato un nuovo,
rivoluzionario franchising, il Feltrinelli Point, con lo scopo di consolidare e
accrescere le posizioni ma anche di resistere sul territorio allo strapotere di
Amazon, l'altro grosso corno del mercato librario: con un fee d'ingresso molto
contenuto, 20.000 euro, un libraio indipendente in difficoltà poteva
trasformare la sua libreria storica in un Feltrinelli Point ben attrezzato, che
con 150 mq di superficie avrebbe garantito un minimo di 500.000 euro di
fatturato lordo all'anno, ovvero all'incirca 150.000 euro di incassi. Nel
frattempo, Amazon ha continuato a crescere tanto da proporsi ormai come un
editore, un promotore e un distributore alternativo all'intero sistema
tradizionale, che quest'anno ha segnato il 3,8 % in più proprio grazie ai
fatturati di quel colosso: un incremento, solo nel comparto librario, del 200 %
l'anno scorso, del 40 % quest'anno). ↑
4. Barion, Fogola, Galleri, Ghelfi, Giovannacci, Maucci,
Lazzarelli, Tarantola: questi erano i nomi delle principali famiglie di editori
e di librai che si diffusero in Italia, tra otto e novecento, lavorando a
stretto contatto con Bietti, Rizzoli, Garzanti, Mondadori, Hoepli,
Dall'Oglio-Corbaccio, Lucchi e Salani. Nel 1471, a Fivizzano,
in Lunigiana, nasce una delle prime tipografie a caratteri mobili in Italia, a
quindici anni dalla prima edizione della Bibbia di Gutenberg. Jacopo da Fivizzano, prima da solo e poi coi figli Alessandro e Battista, nel giro di
tre anni mette alle stampe, tra le altre, le Bucoliche, le Georgiche
e l'Eneide di Virgilio, il Catone maggiore
di Cicerone, le Satire di Giovenale, la Congiura di Catilina
di Sallustio. Da un paese di settecento persone con ottantasei laureati, prende
il via la più incredibile mutazione antropologica che sia mai stata raccontata:
da contadini a venditori di pietre, da venditori di pietre ad ambulanti e poi
contrabbandieri di libri; nell'arco di due secoli, nella vicina Pontremoli
si sviluppa un'emigrazione coordinata che farà dei paesi di Montereggio,
Parana e Mulazzo il cuore di un contagio libresco senza precedenti.
Come fece, un'intera generazione di contadini senza istruzione, a trasformare
il libro in un oggetto di culto anche tra larghi strati di una popolazione che
non sapeva leggere né scrivere, potrebbe essere il tema di un libro a sé. ↑
5. Seguo la definizione di Alberto Cadioli e del suo Letterati editori. Attività editoriale e modelli
letterari nel Novecento, il
Saggiatore, n.e. 2017 ↑
6. «Secondo alcune indagini, il 70 % degli intellettuali
italiani nati tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX esercitava la
professione di insegnante, il 20 % viveva di rendita, il 10 % era in una certa
misura inserito nella produzione editoriale. […] Sarebbe interessante
raccogliere tutte le dichiarazioni di avversione alla carriera scolastica dei
letterati italiani del primo Novecento, che implicitamente rivelano
l’aspirazione a un altro lavoro. […] Un lungo articolo di Benedetto Croce sulla
scelta di lavoro dei neolaureati (“I laureati al bivio”) ripropone, sulla Voce
del 4 febbraio 1909, l’interrogativo “scuola o giornalismo?” […] La posizione
di Croce presuppone un intellettuale “separato” dai problemi di quella realtà
quotidiana a cui si rivolge in toto il giornalista: “Il contatto troppo diretto
con gli interessi degli uomini e con la lotta della vita attutisce la virtù
contemplativa e riflessiva,” scrive infatti Croce, nello stesso articolo. […]
Ed è tuttavia di Borgese il giudizio: “Il giornalismo è infamante, il
professore ridicolo.”» Alberto Cadioli, op. cit., pp. 56-59. ↑
7. Prima Giulio Einaudi cede le edizioni scientifiche e
la “collana viola” al suo redattore
Paolo Boringhieri, e poi stipula con Arnoldo
Mondadori, sostenuto da altri finanziatori, un accordo per cedergli buona parte
del proprio catalogo in edizione economica Mondadori e Saggiatore: operazione
che non solo consacra Linder nel suo ruolo di influente «matchmaker», secondo
la definizione di Inge Feltrinelli, ma che anticipa il destino della casa editrice
torinese e produrrà il seme dei futuri Oscar Mondadori, probabilmente
l’operazione commerciale più importante della moderna editoria italiana. ↑
8. Per esperienza personale, cinquant'anni più tardi,
posso testimoniare che l'alleanza o l'amicizia tra un editore e un agente può
fare la fortuna di entrambi, come nel caso di Gianluca Foglia
e Roberto Santachiara, ma anche compromettere, ostacolare o semplicemente
ritardare la divulgazione di un'opera, come Nicola Crocetti con
Luigi Bernabт e l'eredità di Anne
Sexton. ↑
9. Oreste del Buono, L'agente letterario da Erich Linder a oggi, p. 41. ↑
10.
Tratto da Pier Vittorio Tondelli. Un ritratto a memoria, Andrea Demarchi, Cattedrale, 2007, p. 14 e sgg.) ↑
11.
Tratto da “Un momento della
scrittura” in L’abbandono, Bompiani, 1993. Il brano "Un momento della
scrittura", comparso postumo nel libro L’abbandono, è stato
datato dall’autore 1988, ovvero è coevo alla stesura di Camere separate (pubblicato nel 1989). ↑
12.
Dunque l’iperproduzione è uno dei
problemi con cui l’editoria comincia a fare i conti, a partire dagli anni
novanta. La causa di questa iperproduzione non sta tanto (o non sta solo) nella
presenza di moltissimi scriventi – d’altra parte questa è l’epoca
dell'università e della comunicazione di massa – quanto nella struttura dei
modi della distribuzione, su cui si plasmano anche i modi della produzione:
«L’industria del libro non è un’industria, è un anti-industria» ricorda lo
stesso Linder, in un articolo apparso su “Pubblico 1981”. «Ogni industria che
meriti questo nome indirizza i propri sforzi a produrre il minor numero
possibile di prodotti, nel maggior numero possibile di esemplari di ogni singolo
prodotto. L’industria editoriale fa l’esatto contrario: il massimo numero di
prodotti, con una produzione unitaria minima.» Questo impianto rischiosissimo
anche in termini di “individuazione del consumatore” e quindi di previsione del
risultato, ovviamente, con l'aumentare della produzione paga in termini di
qualità: il prodotto dovrà omologarsi secondo lo standard del più vendibile,
che corrisponde alla sequela del più venduto. La GDO, da questo punto di vista,
chiede all’editore di produrre il libro che vende di più, che ha “funzionato”
meglio, determinando un’omologazione epigonale della produzione. «Gli editori
non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono
sperando che siano belli» recita il Manifesto TQ sull’editoria. Se poi si pensa
che nel nostro paese i maggiori gruppi distributivi e i maggiori gruppi
editoriali spesse volte coincidono, costituendo un oligopolio di concentrazioni
verticali (proprietà delle reti distributive) e orizzontali (proprietà dei
marchi storici) che rappresenta il 91 % dell’offerta libraria, si comprende
come mai lo spazio per la produzione indipendente, per la produzione non
omologata, per la produzione di ricerca, così come quello delle librerie
indipendenti, sia ormai ridotto a numeri da riserva indiana e minacciato da
ogni lato. ↑
13.
Alberto Cadioli, op. cit., p. 58.
↑
14.
Anche Carver
lo era; solo, non ha incontrato un agente letterario ma un editor, Gordon Lish,
che ha fatto la sua fortuna. ↑
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