IL MEMOIR CHE NON LO È
Dopo aver assistito alla magnetica, intensa lettura di Brian Turner al Salone del Libro di Torino 2017 mi sono subito o quasi cimentato con questo La mia vita è un paese straniero. Certe ispirazioni, certi attimi vanno colti quando si palesano.
Il romanzo/memoir di guerra ha avuto recentemente alcuni esponenti come Kevin Powers (americano) nel 2013 con Yellow Birds (Einaudi), Harry Parker (inglese) con Anatomia di un soldato (Big Sur) nel 2016 e sempre nello stesso anno Turner (americano) con il libro di cui parlo adesso.
Le guerre (dichiarate come di) prevenzione e in realtà (percepite come di) aggressione portano traumi, che a loro volta spingono a raccontare. Mi permetto questa osservazione che potrebbe sembrare banale perché non ricordo simile memorialistica dall´interno per esempio su altre recenti guerre di garanzia o missioni umanitarie (per esempio quella balcanica), dove abbiamo - mi pare - narrazioni o reportage giornalistici, ma non testi scritti da ex-soldati.
Che il libro di Tuner sia fondamentalmente la narrazione di un trauma o di una serie di traumi prima ancora che un romanzo tradizionale o una memoir di stampo prettamente realistico diventa subito evidente, così come lo si potrebbe sospettare in premessa sapendo che Tuner è - oltre che un ex-sergente dell´esercito degli Stati Uniti - un poeta.
La mia vita è un paese straniero si basa su una struttura "a frammenti" che mischia reportage "sul campo", flashback narrativi, scampoli lirico-onirici, e a veri e propri estratti o residui poetici.
Possiamo identificare una prima sezione appunto più tradizionale dove si descrivono con dovizia di dettagli tecnici le azioni a cui Turner ha partecipato, la vita quotidiana in Iraq, le paure e la maniera di esorcizzarle (con quelle abitudini o convenzioni che abbiamo imparato a conoscere dalla cinematografia tipo Full Metal Jacket) e una seconda sezione maggiormente poetica, divagante, volutamente anti-realistica, dove nella testa o nei ricordi o nei sogni dell´autore prende la parola una messe di personaggi, soldati come lui, o vittime di guerra, una polifonia che però esiste solo nel vissuto dello scrittore, e che in maniera crescente viene arricchita materiali spuri (proprie poesie, poesie altrui, frammenti di altri testi narrativi o tecnici), opportunamente tematizzati nelle ricche note che chiudono lo scritto.
Personalmente ho trovato più potente la prima parte, il che è anche l´ammissione di una mia preferenza come lettore, encomiabile comunque il livello di competenza di Turner nell´utilizzo di diversi registri, senza mai farsi sfuggire di mano una materia non proprio addomesticata, e mantenendo l´unitarietà del disegno.
Mi pareva che dall´incontro a Torino emergesse dalle parole dello scrittore la volontà di dare una lettura della guerra che fosse appunto differente da quella (che potremmo definire "piatta" e situazionale) giornalistica, un racconto che valorizzi il dettaglio, il volto, la singola ferita, la vittima vista un momento prima o un momento dopo l´impatto con una scheggia o un proiettile, e ancora i nomi e i cognomi, direi l´individualità di chi partecipa alle guerre e di chi in patria attende o decide di non farlo più, e ancora - azzardo un po´- direi quasi l´individualità delle singole attrezzature (le armi, le barriere di difesa, gli elmetti, gli occhiali a infrarossi, i droni) che quasi si umanizzano in rapporto a chi le usa per tornare a disumanizzarsi in relazione a chi le subisce.
La dichiarazione di poetica può sembrare ovvia: Turner a Torino ha fatto questa distinzione, da una parte il giornalista scriverà di cinque morti in un´azione sul Teatro di guerra, dall´altra l´artista sentirà il bisogno di riscattare dall´oblio quei cinque nomi, quelle cinque persone - e di evitare quegli eufemismi come teatro di guerra che in qualche modo uniformano, appiattiscono o imbellettano in maniera celebratoria la narrazione di un conflitto; di questo si tratta, per lo scrittore. Un ottimo proposito, insomma, ma meno ovvio è che questo intento, questa volontà di valorizzare i destini e in sostanza la persona si realizzi sulla carta, e invece a Turner riesce.
Certo, chi prende in mano il libro deve appunto sapere e accettare la premessa, non si ha davanti un resoconto "dalla A alla Z" di un´esperienza sul campo di battaglia, ci si deve quindi a preparare a quell´andamento anche divagante che citavo sopra, al cambio dei punti di vista, ogni tanto anche a domandarsi dove vuole andare a parare l´autore e cosa sta cercando di comunicarci (ci troviamo comunque di fronte a un poeta che si cimenta con la sua prima opera narrativa), e verrà ripagato da un´ ispirazione reale e da una maniera inconsueta e talvolta indubbiamente vigorosa di metterla sulla pagina (fate una prova con il capitolo 49, quello che inizia con "I soldati entrano nella casa e i soldati entrano nella casa").
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Informazioni sul libro
Informazioni sul libro
Brian Turner - La mia vita é un paese straniero
Traduzione di Guido Calza
Ed. NN 2016
208 pg.
Attualmente in commercio
208 pg.
Attualmente in commercio
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c'è anche un racconto molto bello di Durrenmatt, "La guerra invernale nel Tibet", ma è più un resoconto esistenziale sulle macerie della terza guerra mondiale, una sorta di distopia ma affrontata con un atteggiamento più "classico", come potrebbe essere il monologo del colonnello Kurtz. Forse queste formule narrative più fluide riescono meglio a narrare il "trauma" rispetto al documentario nudo e crudo.
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