MÖDLAREUTH
Avevo coniato un termine per me. Mi chiamavo “l’ex-cavaliere
errante”. Ma avrei potuto scegliere “Phil Katz”. Oppure “Chris Farley”.
Ero stato a Bamberg, a Norimberga, a
Ratisbona, a Bayreuth, da solo, in alcuni posti avevo affittato un appartamento,
in altri stavo in albergo, vicino a Bayreuth avevo trovato un wellness-hotel
piuttosto decadente, le luci soffuse, la differenza di età con gli altri
ospiti, gli uomini avevano di norma una pancia imperiale, le donne erano curate,
i boccoli canuti, il trucco a volte troppo pesante. Ricordo questi boccoli,
queste capigliature gonfie, l’orgoglio di camminare sui tacchi accanto al
marito, di esibire gambe ancora toniche, i piedi in scarpe con tacco, décolleté
con la punta, scarpe rosse o verdi ottano, appariscenti.
A Bamberg ero in un appartamento vicino alla
cattedrale, una strada in acciottolato, in salita su dal fiume verso la
collina, dalle finestre al piano terra vedevo passare persone, turisti,
coppiette.
Da molto tempo non giravo da solo. Mi era
capitato di passare qualche notte in hotel per motivi di lavoro, viaggi di due
o tre giorni al massimo. Ora ero via da due settimane, mi ero inventato questa
vacanza autunnale, sfruttando il fatto di poter sostanzialmente gestire il mio
tempo.
Avevo divorziato da un mese.
Quella regione si chiama Franconia, e chi ci
abita ci tiene a definirsi Francone, non farsi confondere con la Baviera, coi
bavaresi. Le persone parlavano con quel forte accento – una cosa contadina (una
mia collega li chiamava “i bovari”) – io nel mio tedesco corretto, fluido, con
accento italiano. Mi apprezzavano, penso. Parlavo poco, dicevo le cose
essenziali. Non so se mi riconoscessero e se semplicemente fossero gentili.
A Ratisbona avevo provato a portarmi in
camera una donna conosciuta in piscina. Pensavo che mi guardasse. Avevo fatto
dei commenti sull’acqua che sembrava troppo fredda.
Mi aveva chiesto perché ero lì – le avevo
detto che volevo cambiare aria, per un po’. Non avevo parlato di me. Avevamo i
gomiti e le spalle appoggiate a bordo piscina. Parlavamo. Lei aveva un seno
pesante, da donna matura, la pelle era liscia, ancora compatta, il ciondolo di
una collana alludeva alla scollatura. Non avevo neppure provato a invitarla a
cena, le avevo chiesto se voleva un aperitivo in camera mia. Lei non aveva
sorriso, e aveva detto «Meglio di no». O forse «Preferisco di no».
Ero ex-cavaliere perché avevo tradito mia
moglie, infrangendo il mio codice, le regole che pensavo di essermi dato.
In quel viaggio avevo sperimentato diverse
gradazioni di luce e buio, era autunno, si passava da giornate di foglie gialle
brillanti, o avviate verso diverse tonalità di rosso, vinaccia, rubino, arancia
sanguinella a cieli grigi che sembravano abbassarsi su di me e sulle mie
aspettative, sul mio senso dell’avventura. Erano giorni in cui volevo camminare
a testa alta e fiducioso come un condottiero, ma non trovavo la maniera di
combattere tutte quelle variazioni di stato. Stanco-euforico, afa-freddo,
seduto-in piedi, stomaco vuoto-digestione, demotivazione-endorfine.
Stavo scoprendo che quello stato di costante
euforia e generale apprezzamento per il viaggio, e poi per il ritorno, o per la
distanza che premette il ritorno, era effetto dell’andare e tornare, della
prospettiva di breve periodo, come in un infinito e circolare inveramento del
pensiero del saggio latino – non c’è da mutare cielo, bensì animo – e per
questo la donna dai seni pesanti non aveva voluto venire su a scopare,
immagino.
Il binge-drinking significava per me essere
astemio.
La donna dai seni pesanti non aveva
riconosciuto il guitto, questo guitto italiano, questo concentrato di luoghi
comuni. E forse gli albergatori, i cittadini, gli esercenti in genere, che mi
trattavano con cortesia, avevano riconosciuto in me un semplice esemplare di
cittadino-europeo-integrato. Un esemplare deambulante e pagante. (Non sporca,
non disturba, spazzola il cesso con l’apposito apparecchio dotato di setole.)
Io ero quello che nei film tedeschi, nelle
serie, faceva il cameriere italiano, il barista, il proprietario di ristorante.
DOTORE –
KOMMEN SIE!
MÖCHTEN
SIE EINE SPRITZ?
SIGNORA,
IN ITALIA GROSSE PROBLEME; ABER BITTE VERGESSEN UND DIMENTICARE! EINE GRAPPA
FÜR SIE?
Avevo avuto un vertice, a modo mio: avevo
recitato in un film di Hans J. Hensenring, si chiamava “Il circolo dei
vincitori Repubblicani”; Hensering si lasciava ispirare da Fassbinder, io
lasciavo che le cose succedessero, quel film poteva ricordare anche cose di
Fellini o di Kusturica, molti costumi, silenzi, dialoghi trattenuti,
mascherate. Io avevo una sola battuta – non
so! Urlavo. Non so! Lo urlavo in
italiano, due volte: vestito da cameriere (il regista era stato incerto tra
cameriere e pulcinella, poi mi ritenne troppo alto e robusto per pulcinella). Il
film aveva partecipato a Cannes, se ne era sottolineato il significato
satirico-politico, era stato fatto il nome di Bunuel, a Cannes erano andati gli
attori principali col regista. Fassbinder è sepolto al cimitero di Bogenhausen,
una collina che digrada sul fiume, c’ero stato con mia moglie, durante una
lunga passeggiata, quando si prova a riscoprire una città che già si conosce,
il tentativo di sconfiggere l’abitudine.
Molto spesso, parlando di me, usavo la terza
persona e dicevo “l’imprenditore”. Le frasi che iniziavano con “l’imprenditore”
dovevano essere pronunciate a mo’ di insegnamento.
Questo era il motivo – o uno di essi – per i
quali potevo girare, lì, in Franconia, relativamente libero. L’altro
chiaramente era il divorzio. Mi pareva che la libertà fosse una
riclassificazione della parola, del concetto stesso di solitudine. Potevo
spingere quanto volevo sull’acceleratore in quelle autostrade, o uscire e tenere
un’andatura placida nelle statali. Ascoltavo musica, e cenavo da solo (cioè
senza la donna dei seni pesanti, ad esempio).
«Mi hai mentito, mi menti in faccia, senza
nessuna vergogna» – mi aveva detto mia moglie, e non si riferiva al tradimento,
ma a un incidente domestico, una bagatella, quelle che paiono distinguere l’uomo
(fatalista) dalla donna (che ne fa questione vitale). La porta del frigorifero
rimasta aperta, figuriamoci. Roba da sorriderne dopo pochi minuti. Eppure era
stata pronunciata la parola “mentire”.
Qualche mese dopo mi aveva scoperto, aveva
scoperto la cosa vera, la mia fuga nel sesso e nel nulla; avevo pensato che non
fosse un caso, che forse sospettava, quelle mie assenze, il fatto che cercassi
sempre di aprire e leggere per primo gli estratti della carta di credito.
Amavo mia moglie, questo è il punto, per me
era stato sorriso e salvezza. Dicevo: «È quella che mi tiene coi piedi per
terra».
Senza Laura e senza la casualità non avrei
conosciuto Mödlareuth, e forse non sarei vivo.
Quello che aveva reso il mio volto conosciuto
era il ruolo di Maurizio – il gastronomo italiano – nella serie Sedanstrasse.
Nella serie parlavo un tedesco impeccabile ma accentuavo l’accento italiano, e
ogni tanto dicevo “SIGNORA” e “DOTORE” marcando bene l’unica T. La serie non
aveva resistito ai tempi di Netflix, di “House of Cards”, o semplicemente aveva
esaurito quella sua forza un po’ noiosa, adatta a famiglie ben poco simultanee,
persone che usavano cenare freddo alle sette con un po’ di pane, salumi e
formaggi, i cellulari rigorosamente spenti.
Era da un po’ che non recitavo, ma la cosa
non mi aveva reso triste. Paradossalmente, la gente di Monaco mi vedeva a
seconda del ruolo che avevo recitato, ero un gastronomo insomma e conoscendone
molti di quelli veri era stato semplice iniziare a fare affari con loro, avevo messo su un’agenzia che collocava
italiani appena arrivati a Monaco, soprattutto nel settore della ristorazione.
Poi avevo iniziato a diversificare, la richiesta era elevata, anche da locali
tedeschi, e via via da altre aziende. Un po’ fatturavo e un po’ facevo del nero. Il mio volto era nelle pubblicità
dell’agenzia, per quelli che ancora conoscevano Maurizio il gastronomo. Non
avevo tirato i remi in barca: le pubblicità ingiallivano sui pochi flyer che
ancora erano in giro perché stava cambiando il mercato, ora bastavo io, erano
sufficienti i miei rapporti, e poi la bestia Internet, che a volte riuscivo a
domare.
A Mödlareuth era una giornata grigia, Laura
diceva: «Secondo me va vista così», io ero ancora un po’ tremante.
Emergevano i ricordi di quando avevo guardato
con mia moglie quello sceneggiato, sul paesino diviso in due dalla separazione
tra Germania Ovest e DDR. All’inizio era simbolica, una linea che corrispondeva
col ruscello che passava per il paese, poi il filo spinato, ed ecco alla fine
il Muro e la terra di nessuno, area di possesso per i cani, per le guardie, per
i bagliori del neon accecante.
Vite spezzate, famiglie separate, in un borgo
da un centinaio di abitanti: potevano essere tratte conclusioni sull’insensatezza
della burocrazia e sulla ferita inferta alla Germania, quella linea che la
percorreva dalla Baviera fino a Nord, fino a Lubecca poteva essere vissuta come
una lunga sottile ferita mai cicatrizzata. Questo può pensare un guitto come
me. Ne parlavo a mia moglie in perfetta buona fede, ma non avrei ripetuto a
Laura questo sermoncino.
Nel grigiore e nel freddo di Mödlareuth, giravamo
tra le installazioni. Alcune erano originali, altre erano state ricostruite.
Osservavamo le torrette, il filo spinato, le parti residue di muro, il
fiumiciattolo. Facevano ancora una certa impressione. Sembrava tutto
sproporzionato: un bambino avrebbe potuto divertirsi a saltare il fiumiciattolo
e passare quindi da Turingia a Baviera. O tenere un piede da una parte, uno
dall’altro. E avrebbe chiesto al papà: «Ma
una volta mi sparavano, se facevo così?» Il problema non si poneva, ma sì,
avrebbero sparato.
Avevo conosciuto Laura durante la mia terapia
comportamentale, la fase di rottura.
A mia moglie dicevo: «Avevo dimenticato chi
ero». Ma tuttora non so cosa volesse dire.
In ogni modo Laura mi conosceva, laddove ad
esempio la donna dai seni pesanti avrebbe pensato a un uomo solo che si concede
un ultimo drink (e poi un altro, poi un altro) senza nessuno che lo controllasse,
la libertà che l’imprenditore ogni tanto può concedersi, Laura aveva collegato
con le cose di me che sapeva per la terapia. Avevamo anche provato a vederci,
qualche volta, finite le sedute collettive, ci eravamo scambiati i numeri, mi
pare che una volta fossimo usciti, io e mia moglie, lei e il suo ragazzo.
Quindi Laura vedeva l’uomo che una volta in
terapia aveva detto: «Il problema è che molte cose che faccio, le faccio
velocemente, bevo acqua velocemente, mangio velocemente, in questo periodo non
riesco a frenare, mi sfugge il tempo dalle mani.»
Erano i tempi in cui mi riconoscevano per
strada, non pensavo di essermi montato la testa, ma in un certo senso avevo
scartato, mi si erano modificate le priorità, non so neppure io cosa cercavo,
in retrospettiva potrei dire “Cercavo di non andare a letto presto, cercavo di
trovare ancora e sempre un’altra emozione”. Era stata mia moglie a stimolarmi a
chiedere aiuto. Lei diceva: «Non voglio che ti distruggi». Vedeva una sorta di
dramma, di esito dove io scorgevo
solo l’orologio del computer che indicava le due di notte, una grappa o una
sigaretta sul terrazzo, gustando il fresco e le voci giovani provenienti da altre
case.
Peggio della solitudine c’è la sensazione di
esserlo, senza che questo abbia giustificazioni, una base fondante. Questa
sensazione è amica delle cattive abitudini, della compulsività, della ricerca
spasmodica di apprezzamento e sostegno.
Le macchine parcheggiavano ai lati della
strada statale, c’erano turisti, eravamo tutti molto silenziosi, forse era
effetto della giornata.
Laura mi diceva: «Avevo dei parenti a est,
alcuni a Berlino, altri a Bad Doberan. Ero piccola, ma ricordo ancora bene cosa
significava non poter uscire dall’autostrada, non potersi portare libri e
giornali. Una volta mio padre – no, il mio patrigno – aveva provato a scherzare
con le guardie, ti chiedevano “Sta cercando di portare in DDR merci vietate,
giornali occidentali, videocassette, armi?” e lui aveva risposto “Sì, l’auto è
piena di armi”.»
«Come quando si va negli Stati Uniti in aereo.»
«Questi non capivano nessuna ironia, ci
avevano smontato la macchina, eravamo stati fermi quattro ore, senza sapere
cosa sarebbe successo. Capisci?, era tutto a loro discrezione. Come qui ai
tempi. Farsi sparare, semplicissimo, eppure c’era la speranza di poter fuggire,
farcela.»
Non so perché ma a un certo punto le dissi: «Gli
imprenditori vincono sempre.»
Le stavo raccontando di un mio conoscente che
lavorava nel tessile, anche lui di origine italiana, aveva quotato l’azienda in
borsa, e cinque mesi dopo era fallita, l’aveva fatta fallire.
«E ora si tratta solo di nascondere i soldi.
Vincono sempre.»
Lei mi aveva chiesto se anche io vincessi
sempre e io le avevo detto di no. Non ero sicuro, no.
Mi aveva detto: «Ieri in albergo avevi un’aria
disperata. Ero col mio fidanzato, ho dovuto chiedergli il permesso, lui ha
capito, sa della terapia.»
«Ma… ma torna da lui allora.»
«Gli ho chiesto di scusarmi, avevi l’aria
disperata. Oggi un po’ meno.»
«Mia moglie ogni tanto mi pregava: “Vieni a
letto presto, così ti fai del male”.»
«Bevevi?»
«Non necessariamente, a volte facevo reload
su Internet, reload, reload reload.»
«Ti manca la fama?»
«Penso di no, sto bene, dovrei essere
orgoglioso di quello che ho fatto, ho l’azienda, risparmio, ho certezze per il
futuro.»
Non mi chiese cosa pensavo di fare, perché il
giorno prima avessi ordinato una birra, e poi un vino rosso e poi avessi
iniziato col gin tonic, e dove volessi arrivare.
Era chiaro, mi volevo suicidare, se non
fisicamente, almeno pretendevo di perdere il rispetto di me stesso.
Era stato strano prendere un caffè lungo con
Laura, a Mödlareuth, nel bar del piccolo museo allestito nella parte bavarese
del villaggio, a venti metri dal muro, a ventidue circa dalla Turingia.
Mi interessavano i suoi racconti sull’est, su
lei bambina che passava attraverso le stazioni fantasma di Berlino.
La solitudine mi faceva pensare – perché non
ci siamo conosciuti in un’altra occasione? Prima. Prima di tutto, prima della
terapia, prima del suo fidanzato, prima che ieri sera mi salvasse, prima della
donna dal seno pesante.
Durante quella vacanza pensavo a me come
imprenditore e come guitto, vedevo queste immagini del mio passato, io al
ristorante che imitavo me stesso, quando recitavo. DOTORE!
ITALIANO CORROTTO KOMM HIER ZU DEUTSCHLAND OHNE PAPIERE, DU BIST ILLEGAL!
Ridevano, rideva anche mia moglie. Avrei
potuto tradirla con Laura, invece ero stato con una ragazzetta, che cosa
stupendamente banale.
Avrei voluto raccontarlo a Laura ma non
sapevo come l’avrebbe presa. Le avrei potuto dire del divorzio, della casa
improvvisamente diventata molto grande, degli scatoloni, dei turni che facevamo
per permettere a mia moglie di sgombrare senza incontrarmi, a me di sostituire
le cose che si portava via. Mi mancavano quelle pentole vecchie, che non aveva
mai voluto buttare.
Tornando da Mödlareuth mi sentivo un po’ meglio,
avevo smesso di tremare per il freddo e per il doposbronza, la strada
attraversava campi e boschi, lontani dalla striscia, dal ruscello, la città che
si incontrava per prima era Hof, con Laura commentammo che ce la aspettavamo
più brutta, c’era in me un misto di tristezza e speranza, ora conoscevo il
paesino dello sceneggiato, Laura era accanto a me ancora per poche ore, mi era
chiaro il significato di ricaduta ma in maniera forse troppo arrogante non
temevo la prossima sera, o la sera dopo, cercavo di farmi coraggio, in terapia
ci insegnavano a ripeterci queste frasi “Ce la puoi fare” – “La vita ha alti e
bassi, ma tu non sei solo gli alti, non sei neanche solo i bassi”.
La radio, la radio suonava “Learning to fly”,
quella dei Pink Floyd e sentivo Laura canticchiarne il ritornello.
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