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LIBRI E RECENSIONI. GIORDANO MEACCI - IL CINGHIALE CHE UCCISE LIBERTY VALANCE

IL GIOCO CON LA LINGUA DI MEACCI




Ho letto questo romanzo finalista del Premio Strega 2016 (ha concluso con un quarto posto di prestigio, come si direbbe in termini calcistici) a diverse velocità e con differenti sensazioni: momenti di forte rallentamento e sprint, incanto, curiosità, irritazione.

Giordano Meacci è linguista - e si vede, sceneggiatore/cinefilo - e si vede. Immagino sia grande ammiratore di Pynchon e Foster Wallace (il Nardile...fiume immaginario che scorre vicino a Corsignano), e penso si veda.

Insomma, in questo Il cinghiale che uccise Liberty Valance, suo romanzo di esordio uscito per Minimum Fax e altamente lodato da critici e colleghi, Meacci mette tutto sé stesso. Il che a mio modo di vedere non basta per il capolavoro o per il libro epocale, ma ci consegna un romanzo che non ha paura di osare, di esagerare, a volte di perdere il controllo, e di sperimentare come forse nessun altro libro italiano di queste ultime annate ha cercato di fare.

Si narrano le vicende del borgo immaginario di Corsignano, nel senese, al confine con l'Umbria, e di un gruppo di Cinghiali che decide di far guerriglia, illuminato dal loro leader naturale Apperbohr, che - a sua volta folgorato da una visione cinematografica - inizia a capire il linguaggio degli umani.

Di questa ambientazione provinciale spesso struggente coi suoi amori, le morti, lo scemo del paese, le corna, il sesso, i ricordi della lotta partigiana, Meacci fa il materiale di costruzione per la sua particolarissima sperimentazione sul linguaggio, costruendo pagine densissime, creative, virtuosistiche spesso sfocianti nel barocco.

Là dove si usa l´italiano questo spazia con gran libertà tra l´alto e il basso, si cerca di far vivere plasticamente e graficamente sulla pagina il dialetto toscano, si aprono parentesi e si disegnano corsivi senza misura alcuna, la principale a volte rimane interrotta per mezza pagina da un delirio di subordinate, per poi essere ripresa quasi con fatica, come se lo scrittore proprio non potesse contenersi, la penna o la pagina dei contenitori troppo piccoli per siffatto serbatoio di parole e di storie.

Ma c'è di più: come già si sa, i cinghiali parlano e pensano in cinghialese, lingua appositamente inventata da Meacci con tanto di prontuario/dizionario finale.

Ne viene fuori un romanzo molto, forse un romanzo "troppo", da qui le sensazioni di cui parlavo all'inizio: c'è una mano lirica e ricca di sentimento nell'invenzione e descrizione di questi provinciali, della natura stessa che fa da quinta e quasi da personaggio supplementare, e si riscontra una vera gioia elettrica nel giocare così col linguaggio.
D'altra parte proprio tanta abbondanza di idee, di parole rischia quasi di diventare stucchevole, di stancare, affaticare, ubriacare, rintontire il lettore. Non succede sempre, forse neanche spesso, ma succede, rischiando che magari ci si faccia l'impressione sbagliata. In parole povere, rischiando di mollarlo lì senza pietà.

E sarebbe un peccato perché poi le storie si annodano e si snodano, alcuni passaggi sono commoventi, la stessa (ostica) lingua dei cinghiali acquista fascino e ti spinge tuo malgrado (o ti obbliga) a consultare il dizionario, e in fondo una vera vocazione di molti nostri narratori capaci è quella di cimentarsi con la provincia, le sue vicende, il suo scostarsi sempre un po´dal mainstream della Storia. E fa piacere vedere nel 2016 chi a modo suo e con modelli per nulla scontati riesce a provare a innovare.

Rimangono i forse, che lasciano il tempo che trovano, visto il giudizio sostanzialmente positivo, il divertimento e la commozione di alcune pagine e la curiosità di vedere dove andrà a parare Meacci - a partire da queste grosse ambizioni - con le sue prossime opere.

Forse se avesse concesso qualcosa di più al lettore, forse meno storie e rivoli delle stesse, forse più scorrevolezza in alcuni dialoghi altamente puntinati, forse farle concludere, alcune delle storie iniziate (o magari è in arrivo un capitolo due?).

Ma appunto, proviamo a prenderlo e a godercelo come è questo Cinghiale - che non si punisca chi rischia di sbagliare (ma non lo fa, non del tutto) per troppa generosità. Per troppo amore.

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