ALTRO RACCONTO DI GIOVENTÚ (ALQUANTO NICHLISTA)
La mattina li
accolse chiara, li abbracciò in una frescura inattesa e nulla li disturbò se
non il gracchiare di una radio, il passaggio di una motocicletta lontana.
"Hai russato
tutta notte. Lo sapevi che devo guidare!", disse lui, ridendo.
"Erano le
cicale.", rispose, secca, a voce alta.
"Figurati se
non so distinguere fra le cicale e te che russi. Ormai lo conosco il tuo
rumore."
"E' comunque
una cosa poco carina, che rinfacci a tua moglie di russare."
"Non è mica
una condanna, era così, per dire."
"Tu non mi
sopporti più."
Nulla di più
falso, lui la amava, e il suo amore finiva per investirne e avvolgerne anche i
difetti.
"Oh, dolce
russare. Oh, tenero sfrigolio di cespugli di more al vento." le avrebbe
detto, se non si fosse sentito ridicolo.
Partirono, lui
più pimpante, lei un po' rigida sul sedile, imprigionata dalla cintura di
sicurezza.
Il viaggio
procedeva sereno, la musica in sottofondo lo coccolava, l'autostrada sembrava
quasi bella, così luccicante di riflessi dorati.
"Non sto
bene, ci fermiamo al prossimo autogrill."
L' avrebbe amata
ancora di più se gli avesse detto "Mi scappa da pisciare, caro, scusa, ti
dispiace se ci fermiamo? Magari mangi un panino e ti compri la Gazzetta."
Si comprò
comunque la Gazzetta, lei sbuffò.
"Non fare
quella faccia! Vorrei vedere se ti sentissi male tu!"
"Non ho
fatto nessuna faccia..."
"Eh si, come
se non lo sapessi, quanto ti scoccia fermarti quando viaggi."
Al chilometro
ottantatre prese a parlare della Biondini che si era fatta la casa in montagna,
della Loi che non si faceva più vedere in palestra perchè era troppo
ingrassata.
Poi, senza che
lui aprisse bocca, lo accusò di non avere opinoni, di essere sempre amico di
tutti, di essere l'unico fesso che non si accorgeva di quanto gli altri fossero
spietati come iene.
"Sarà per
questo" concluse "che al lavoro promuovono tutti tranne te."
Provò dolore.
Si sforzò di
ricordarla com'era venti anni prima, spiritosa ma non acida, osservatrice ma
non pettegola, fresca, con occhi puliti, neri e grandi, colta ma mai petulante,
quando ancora sognava e si illudeva, e qualche volta trovava il coraggio di
piangere, e non pronunciava solo sentenze, anzi cambiava idea, e la si scopriva
indulgente e pacifica e ancora incantata.
Le era rimasta la
bellezza, le erano rimasti gli occhi, ma la sua magrezza, conquistata e
mantenuta per svettare sulle coetanee, si era fatta inquietante e grifagna. In
nome di quella non aveva voluto avere figli, anche se non lo avrebbe mai
ammesso.
Le era rimasta la
bocca, tanto ben formata da sembrare dipinta, ma le rughe sul suo volto erano
sempre di più e sempre più evidenti. Rughe da rancore, da tristezza.
Lui viveva per
quel poco che in lei era rimasto della serena ragazza di venti anni prima.
"E se invece
di andare dai tuoi genitori facessimo una cazzata, come ai vecchi tempi, e ce
ne scappassimo alle Cinqueterre. Che ce ne frega, siamo in vacanza! I soldi li
abbiamo. Dai, ce ne stiamo cinque giorni da soli."
Lei rispose
soltanto "Mi sembra poco opportuno." ma il suo viso assunse
un'espressione durissima. Lui tacque all'istante. Si voltò. Non poteva
sopportare quella smorfia di scherno.
Guardò il
contachilometri.
105.232. Tutti
con lei.
Si ricordava il
loro primo viaggio con quella automobile, lo studiò nei particolari, e concluse
che, nonostante tutte le sue illusioni, i suoi ricordi deformati, era stato
identico. E forse anche quelli con le altre automobili.
Guardò fuori e
capì di non essere vivo più del viadotto che li stava sostenendo, del guardrail che avrebbe voluto tranciare di
netto, delle pareti di pietra grigia che annunciavano l'approssimarsi della
città.
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