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LIBRI E RECENSIONI. LEONARD GARDNER - CITTÀ AMARA

NON LA SPERANZA

Cittá Amara



Per gli scrittori americani lo sport costituisce spesso una chiave importante di interpretazione della realtà. Il football - il baseball- ma la Boxe, in qualche modo la Boxe con la sua natura proletaria, il suo senso (o la sua direzione) di riscatto sociale sembra essere uno sport profondamente americano, base perfetta per quelle storie di bassofondo-successo. peccato-redenzione, speranza-fallimento, che occupano una parte importante dell´immaginario cinematografico o letterario.

Si situa bene in questo discorso Città Amara (in originale Fat City) di Leonard Gardner, scrittore da One-Book-Wonder. Questo é stato il suo solo romanzo pubblicato, ed è diventato un piccolo classico nel suo genere, conquistando apprezzamenti importanti (la Didion tra gli altri) e venendo adattato per il cinema da John Huston.

Si tratta di una storia fortemente amara (come nel titolo) e proletaria: Billy Tully è un ex-pugile, ora un alcolizzato e uno spiantato, e non si è mai ripreso dall´abbandono della moglie. Ma ha ancora la forza di lottare e sognare.
Ernie Munger è un ragazzo, confuso, aspirante pugile, intrappolato in una paternità non realmente voluta.

In mezzo a questo: speranze, bevute, combattimenti, nasi rotti, mezze truffe, lavori massacranti (geniali le pagine sulla sfrondatura dei pomodori), la figura romantica da loser dell´allenatore Ruben e ancora amori che non vanno da nessuna parte (la figura tragica dell´alcolizzata romantica Oma).

La prosa di Gardner, asciutta ma immaginifica, sembra adattarsi meravigliosamente a questa storia e ai suoi personaggi. Una storia di proletari e perdenti, appunto, che potrebbe ricordare alla lontana le atmosfere del bellissimo Sabato sera, domenica mattina di Sillitoe, o certi "viaggi nel nulla" dei personaggi di Yates.
Qui c´è però la variabile-Boxe ad arricchire, una sorta di circo dei perdenti (ancora), ma di uomini che con fatica cercano di non abbandonare quell´ultima speranza, o di lasciar cadere quel senso di onore e rispetto dell´avversario (e di se stessi) che fa parte di questa "arte nobile".
Ma sarà possibile alla fine il riscatto? Non anticipo niente, ma le atmosfere del libro rimangono per tutto il tempo afose o brumose, odorano di alberghi di infimo livello, vino da pochi dollari, sudore e canfora. Il riscatto, se possibile, sarà comunque difficilissimo e assolutamente parziale. La vita, in fondo, è una trappola.

*Il titolo originale Fat City si riferisce a un´espressione gergale, andare nella "Fat City" corrisponde grosso modo al nostro "fare la bella vita". Comprendo la scelta di Fazi che ha optato per una traduzione non letterale, ma adatta ai contenuti del libro.


Commenti

  1. Bel libro e bel film. Aggiungerei: gli editori italiani sembrano essere stati presi da una frenesia di ripescaggio statunitense metà Novecento che va da West a McCoy a Carpenter a Malamud a Gardner e persino ad Haruf, con accoglienza laudatoria di solito un po' esagerata ma tutto sommato saggia, perché si tratta di opere di grande professionalità anche quando il livello letterario non è eccelso. Spero che qualcuno si ricordi pure di John O'Hara, di cui mi sembra sia riapparso solo "Venere in visone", e soprattutto dei suoi racconti. O'Hara è stato il dialoghista più bravo di tutta la letteratura americana del Novecento, e le sue short stories superano forse i romanzi ("The Time Element" la mia favorita).

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