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LIBRI E RECENSIONI. CHARLES JACKSON - GIORNI PERDUTI

L´UNIVERSALITÀ DI UNA DIPENDENZA


Edizioni Nutrimenti



Dal calderone scoppiettante della letteratura americana continuano a uscire ripescaggi, riproposte, meritevoli riscoperte. E in molti casi si tende a parlare di classici, piccoli classici, o classici dimenticati. Possibile ce ne siano cosi tanti?
E perché sono stati dimenticati?

Proviamo a parlarne concentrandoci su questo Giorni perduti (The Lost weekend) di Charles Jackson, che Nutrimenti porta in libreria con un´edizione molto ben fatta, ricca di note, riferimenti e con una abbondante postfazione critica.
Dal libro fu tratto un fortunatissimo film di Billy Wilder. Era il 1944. (Ps: un genio Billy Wilder).

Questo è un grande libro, probabilmente un piccolo classico o classico dimenticato, ed è stato dimenticato - credo - perché l´autore non ha scritto nient´altro di tanto pieno e per la specificità del tema. E per l´elevato autobiografismo: Jackson era appunto un alcolista, un personaggio tormentato, e un omosessuale represso.
E insomma il libro è stato scambiato (non del tutto a torto, intendiamoci) per una sorta di romanzo-verità, la cronaca di un weekend di baldoria raccontata dall´interno, dall´interno di una sofferenza auto-inflitta e inevitabile, come è inevitabile ricorrere a una nuova bottiglia per scacciare gli effetti di quella della sera prima.

C´è anche questo - chiaro -  il valore del libro non è però solo testimoniale, ma anche letterario. La prosa di Jackson è ricca e immaginifica, Fitzgerald e Hemingway mi sembrano i numi tutelari.
Dietro la trama principale si muovono i riferimenti "alti": Joyce (da cui prende il via il tutto) e soprattutto Shakespeare, mito letterario del protagonista Don (che è poi la controfigura dello scrittore stesso), le cui citazioni ricorrono in tutta la trama. Una maniera in cui Don si esalta, prova ad elevarsi al rango di Eroe?

C´è poi la tendenza modernista a utilizzare lo specchio di psicologia e psicanalisi: il continuo dialogo del protagonista con se stesso, quella terribile consapevolezza dell´ autodistruzione - non il barbone che si ammazza di pessimo vino appoggiato al muro della stazione, ma la persona rispettabile,
l´intellettuale, amato dalle donne (almeno due nel libro), ben vestito, che vede se stesso riflesso negli occhi degli altri: lo vorrebbero aiutare o lo deridono o lo giudicano. Come fa il protagonista stesso, attore e spettatore del proprio Crollo (crack up, come in Fitzgerald).

Quindi un grande libro? Sì, secondo me sì, specie se si è attratti dalla letteratura delle dipendenze, non quelle (o non solo quelle) alla Trainspotting, la rivincita drogata e alcolica di una generazione No Future, di chi non si immagina il proprio domani per mancanza di fantasia, motivazioni o - più banalmente - risorse economiche, bensì in un contesto che può ricordare i già citati Fitzgerald e Hemingway, o il Lowry di Sotto il Vulcano, una dipendenza intellettuale e borghese, la sofferenza e i propri nodi, i demoni capiti e sviscerati sul piano razionale (da se stessi prima ancora che dall´analista) ma lo stesso impossibile da combattere.

Non so se e quando questo libro tornerà a far parte di un qualche canone letterario americano, e il suo autore delle varie antologie, forse troppo basso il profilo di Jackson, troppo in sordina la sua triste parabola dopo questo romanzo, suo unico vero successo.
Eppure, una lettura potente e straziante, decisamente da riscoprire (magari insieme al film di Wilder).

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