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DISCORSO SULL´AUTOFICTION DA PROUST A KNAUSGARD (CON CARRÈRE E SITI E ALBINATI)

PUNTARE SU SE STESSI




Nel suo divertente e composito saggio Fame di realtà lo scrittore e critico David Shields teorizza la superiorità del memoir, della non-fiction narrativa, e dei generi spuri rispetto alla fiction tout court, come più adatti a raccontare i nostri tempi incontrando il gusto e l´interesse di un lettore che vuole essere istruito e informato oltre che intrattenuto.

Con i grandi esempi di Carrère e Knausgard il discorso sull´autofiction o appunto le forme miste (nel primo reportage, memoir, narrativa, giornalismo) si è mi pare rinvigorito, se in precedenza
c´erano forse confini più netti tra chi faceva new journalism, inchiesta (i vari Wolfe, Capote, la stessa Didion) mettendo in gioco se stessi ma in maniera meno narrativa e direi meno ambigua, sono proprio commistione (Carrère) e radicalità (Knausgard) a contraddistinguere questa nuova-vecchia tendenza del romanzo. Perché parliamo pur sempre di opere che in libreria portano quella denominazione.

Dico nuova-vecchia perché mi pare evidente fino al clamoroso chi sia stato il capostipite: Marcel Proust, che della sua vita fece narrazione, romanzo, spesso ambigui, a volte brutalmente sinceri, e talvolta elusivi.

In effetti Karl-Ove Knausgard è stato paragonato a Proust e credo possa reggere, per il tipo di progetto, per la struttura in volumi.
Anche in riferimento alla sua opera, La mia lotta, mi pare valga la seguente affermazione: tanto più brutale, quanto più ambigua, elusiva, allusiva.
E devo dire, mi viene in soccorso lo scrittore stesso con una vera e propria dichiarazione di poetica nascosta tra le pagine del primo volume (ora denominato La morte del padre).

"...dovunque uno si voltasse vedeva finzione...il centro di tutta quella finzione, vera o meno che fosse, era l´omogeneitá, che manteneva una costanza distanza dalla realtà. Non riuscivo a scrivere in questa situazione, non funzionava, a ogni singola frase faceva seguito un pensiero: ma questo é solo qualcosa che ti sei inventato. Non ha nessun valore. L´invenzione non ha nessun valore, il documentario non ha nessun valore. L´unica cosa in cui vedevo un valore, che ancora trasmetteva un significato, erano i diari e i saggi, la parte della letteratura che non aveva a che fare con il raccontare, non parlava di qualcosa, ma era fatta solo di una voce, la voce di una personalità a sé stante, un volto, uno sguardo che si poteva incontrare...se la finzione non aveva valore, allora non lo aveva neppure il mondo, perché era tramite la finzione che lo vedevamo adesso" 

Quindi, il tentativo di Knausgard attraverso il racconto iperrealistico e impudico (nel senso che pare non nascondere nulla) di sé è quello di sfuggire dalla morsa della finzione? O al contrario, la dichiarazione di poetica sopra riportata è essa stessa finzione, e quello che leggiamo altro non è che un romanzo, perché nessun diario, per quanto rispondente, per quanto preciso, può riportare la non-finzionalitá della vita e allora già una pagina che riassume un momento o una giornata o un episodio o un impressione è in sé per sé finzione? 

Si dovranno comunque apprezzare alcune differenze tra Proust e Knausgard. Il primo fu nobile e benestante, godeva di una vita nell´arte e per l´arte, una vita adatta a diventare lei stessa arte senza far perdere la faccia a chi la raccontava.

Knausgard ha natali piccolo-borghesi, un padre burbero e poi alcolista, quello che in Proust era o poteva sembrare un semplice compiacimento anche un po´snobistico per i propri vezzi, debolezze, pulsioni, nel norvegese diventa la brutalità di chi apparentemente non ha molte carte da giocare, e allora le sbatte sul tavolo con violenza. Ma forse anche questo è un bluff: perché il timore di un padre distante, l´alcolismo, la sfiga in amore, la morte, la depressione sono i carichi di tutti, solo che Knausgard li ha scoperti a inizio partita, o quando nessuno ancora pensava che stesse per iniziarne una, di partita. Ancora di più ha stupito la sua scelta, e tanto più comprensibilmente familiari ed entourage tirati in ballo hanno avuto reazioni di disappunto, e violente. Costretti a giocare, contro la propria volontà.

Diciamo questo: di Proust è o era difficile pensare "come osa?", nasceva privilegiato, nasceva artista, nasceva esteta. Knausgard no, evidente.


Parlerò ora dell´autofiction come scelta di comodo e poi tornerò a Knausgard. In effetti escogitare una trama romanzesca, personaggi che reggano, una buona dose di azione e rendere tutto compatto e coerente è complesso e faticoso. Penso a un grandissimo scrittore tradizionale come Philip Roth (che pure peraltro in alcuni romanzi mette in scena se stesso o propri alter-ego, ma mi pare in un contesto più tradizionalmente romanzesco o addirittura ideologico/polemista). 
Allora può apparire semplificatorio (e in alcuni casi lo è) parlare di se stessi, rinunciare in gran parte 
all´azione sostituendola con elucubrazione e riflessione, portare su carta personaggi situazioni zone realmente esistiti e così come si sono vissuti.
Sto parlando, mi pare evidente, de La scuola cattolica di Edoardo Albinati che intendiamoci non è un brutto libro ma dove questa scelta (paradossalmente) a sottrarre e sottrarsi mettendosi in gioco in prima persona mi sembra lampante, non per nulla la pagina di Albinati - al di là delle dimensioni del libro - è tutto sommato cordiale, scorrevole e un po´freddina, perfino la tanto anticipata apparizione dei mostri del Circeo non si avvicina neppure a sembianze mefistofeliche, quelle sembianze che una semplice foto recente di Angelo Izzo invece ci restituiscono senza bisogno che vengano spese tante parole.

Ecco, Knausgard è lontanissimo da qui...la materia è autobiografica, le elucubrazioni non mancano, ma la cura delle ambientazioni e delle descrizioni (specie quelle riferite alla natura), lo sbozzo dei personaggi - pure realmente esistiti - l´ottima mano nelle scene che definirei di azione, alcuni dialoghi fulminanti, tutto questo mostra come lo scrittore norvegese si sia di fatto giocato tutto e lo abbia fatto su ben due piani: quello dell´Outing e della rivelazione del sé, ma anche quello del "Bel romanzo" o del romanzo moderno, seppur tutt´altro che tradizionale.


La tendenza va avanti, e proseguirà. Da noi in contemporanea o quasi ad Albinati sono usciti Beppe Sebaste e il suo Fallire, autopubblicato su Amazon, gradevolmente disordinato e scombiccherato, forse anche coraggioso se vogliamo nel non tentare neanche di assecondare il lettore, libro che forse con la supervisione di un editor(e) avrebbe potuto essere anche più incisivo e fornire una discreta risposta italiana a Knasugard.

Poi abbiamo Franz Krauspenhaar che con I grandi momenti si è nascosto dietro la maschera di Franco Scelsit per parlare fondamentalmente di sé stesso e di quel momento della vita dove un cuore (letteralmente) matto/traditore ti fa risistemare (o mescolare) valori, priorità e paure. 

Ma credo non si possa parlare di autofiction italiana senza nominare Walter Siti, il cui metodo pure mi pare più simile a quello di Philip Roth.
Alla fine, non basta chiamare uno dei personaggi col proprio vero nome perché il lettore abbia la garanzia di leggere un memoir o accedere ai pensieri e alle azioni anche quelle più intime e autentiche dello scrittore.
In effetti lo dice lui stesso "Mi chiamo Walter Siti, come tutti".
Il fortunato Resistere non serve a niente è secondo me davvero molto romanzesco, per quanto risulti evidente l´identificazione tra Siti e il giornalista che raccoglie le memorie del trader Tommaso.
Ma già tutto l´apparato documentativo sui cattivi padroni del mondo (molto accurato) sa di romanzo, di quella cura direi Dickensiana che tanto più serve alla fiction pura quando si propone di essere credibile a tema di smentita.

Il libro di Shields che nominavo sopra è ricco e documentato, pieno di riferimenti a memoir, a ibridazioni, a semplici curiosità a cui dare un´occhiata, al caso clamoroso di James Frey (che tanto romanzò le sue autobiografie da essere accusato di impostura, in pratica un ulteriore paradosso visto i contesti di cui stiamo parlando).
Quindi rimanderei a quello per una bibliografia più estesa, seppur sempre parziale.

Io mi limito a concludere con Ben Lerner e Il mondo a venire, dove con intersecazione postmoderna di piani si racconta in pratica la storia del "making of" del romanzo ma anche di una sua ipotetica versione alternativa e nutrita di infingimenti.
La bravura di Lerner e la sua penna precisa e leggera rendono vivo e interessante quello che poteva diventare un esercizio di stile, pongono anche un problema sui confini e le possibilità del genere e su quanto di fatto sia possibile sperimentarvi senza cadere nell´autoreferenzialitá e/o senza ripetere ad libitum l´esperimento di Knausgard.

Carrère in questo senso indica una strada molto interessante, istruire intrattenendo con temi sempre molto solidi e ben documentati (la Russia in Limonov, la religione in Il regno) e comparendo nel ruolo di attore (non?) protagonista con il proprio pensiero, la propria vita, e - importantissimo per questo autore - la propria maniera di scrivere. Rimane la domanda di quanti Carrère siano possibili - nel senso che il francese è davvero bravo - così come viene da chiedersi che cosa scriverà o cosa potrà ancora fare Knausgard, se non sarà schiacciato dal peso di un´opera così caratterizzante.

Noi, da lettori, rimaniamo in curiosa attesa.

Commenti

  1. Il libro di Sebaste si chiama "Fallire. Storia con fantasmi" (anche se il lapsus "Sparire" è un'ottima sintesi)

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