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LIBRI E RECENSIONI. IL GRANDE ROMANZO ITALIANO.

SOGNO SENZA REALIZZAZIONE.

Da ragazzo ero illuso - intanto volevo diventare scrittore (eh eh) e vivere di scrittura (eh eh eh eh). Nelle mie elucubrazioni e negli abbozzi (nei tanti abbozzi) messi giù prima su carta, poi sulla schermata di un computer, c´era questa idea del "Luca Mosti". Il titolo era ispirato dai romanzi inglesi che portavano nome e cognome del proprio personaggio  - vedi Tom Jones.

E immaginavo qualcosa di picaresco, ma allo stesso tempo onnicomprensivo, che desse visibilità a 30 - 40 anni di storia italiana, passando naturalmente da Tangentopoli (eravamo al centro della storia - e io ai tempi ero anche discretamente di sinistra) e provando a ritrarre tutti i caratteri tipici della nostra nazione: improvvisazione e opportunismo ma anche creatività, spirito di iniziativa.

L´impresa era ovviamente sproporzionata alle mie forze ed é stata accantonata, peraltro essendomi allontanato dall´Italia ho qualche dubbio che riuscirò mai a riprenderla.

Detto questo, mi chiedevo chi, quale scrittore italiano abbia tale ambizione, e in generale é un´ambizione giusta?

Prendiamo gli scrittori americani. Quella del Grande Romanzo Americano é una vera e propria ossessione, tanto che due scrittori di grande livello hanno proprio intitolato così (seppur in maniera ironica) due loro opere - Roth e Willam C. Williams.

Ma molti di più sono quelli che ci si sono cimentati: da Dos Passos a Pynchon, De Lillo con Underworld, secondo me (perché no?) pure S.King, e poi Richard Ford (che con la sua saga di Bascombe secondo me ci é andato davvero vicinissimo) e lo stesso Roth tornato serio con la sua Pastorale Americana.

Questo ha secondo me a che fare con la grandeur tipica degli statunitensi, ma anche con il tentativo di capire e fare i conti con una propria storia forse tuttora percepita come troppo fragile e contraddittoria.

Gli inglesi come da propri geni prendono la cosa dal punto di vista dell´humor e spingendo sul pedale della satira e di un sano understatement.

Nel tempo io (magari peccando di superficialità) ricostruisco un filone che parte proprio da Fielding, passa (naturalmente) per Dickens per poi arrivare a sorpresa a Jonhatan Coe che prima con la Famiglia Winshaw poi con il ciclo della Casa del Sonno ci é proprio andato vicinissimo.

Martin Amis ci ha provato con i Territori Londinesi e vedremo come sarà il prossimo State of England (il titolo promette bene), Mc Ewan é troppo snob e consapevole per provarci, idem Barnes.

E in Italia?

Devo dire che scrittori come Piperno, Genovesi, Ricuperati mi stanno dando un po' di fiducia (attendendo Latronico e Scibona, in libreria ma non ancora letti -  e non trascurando Walter Siti) sul fatto che se non altro (se non altro!) la letteratura italiana non é fatta solo da shoegazers altamente autoreferenziali con le loro storie tutte uguali o ambientate nel regno della letteratura o in quello del precariato (non che sia un crimine parlare anche di precariato, per caritá, ma se avete letto Desiati e il suo Vita Precaria - e se come me NON lo avete apprezzato, sapete di cosa parlo)

Allo stesso tempo però pare che il Grande Romanzo, quello un po' saga, quello generazionale, quello che prova a combinare storia individuale e del paese, non sia nelle corde dei nostri scrittori.

Provocatoriamente direi che c´é andato vicino, vicinissimo un regista...(avete presente La meglio gioventù)? Peccato quindi che Rulli e Petraglia scrivano sceneggiature e non romanzi?

Uno a dire il vero ci ha provato, con esisti secondo me scadenti, ma gli va riconosciuto il coraggio: Genna con il suo Dies Irae

Per alcuni tempi ho sperato in Ammaniti che ha descrivere la realtà italiana "dal basso" é proprio bravo, ma non si può pretendere da lui quello che comunque King non fa negli USA - ovvero a tratti c´é qualcosa, ma il focus é un altro, lo scopo é intrattenere e l´ambizione se vogliamo più bassa (o più alta?).

Quell´entusiastone di D´Orrico mi aveva un po' illuso su Cappelli ma lasciamo perdere...io mi ero personalmente illuso su Lagioia (a volte i titoli mi fanno sperare cose che poi il libro non mantiene) ma anche qui come andar di notte (con rispetto parlando).

Insomma si deve andare indietro a De Roberto (secondo me IL grande romanzo italiano), Verga e forse Ippolito Nievo.

Non voglio adesso fare sociologia spicciola, quindi parlare del racconto breve come forma preferenziale di espressione per lo scrittore italiano, del nostro monicelliano amore per il quadretto satirico etc...solo lanciare una sfida ai nostri scrittori.

O volete che vi sorpassi io con il mio Luca Mosti (ps: ai tempi abitavo a Massa e il cognome é tipicamente di quelle parti)?


Commenti

  1. Il potenziale maggiore l'avevo visto in Restello: Piove all'insù aveva tutte le caratteristiche di un affresco intergenerazionale, se solo non si fosse limitato (auto?) nei livelli e nel respiro (troppo torinese, troppo -ancora- adolescenziale).
    Peccato che l'autore sia poi esploso, troppo però, con la raccolta successiva, disperdendosi.

    Enrico

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  2. intanto si qualifichi! :-)

    Restello non l´ho ancora letto, devo metterlo nella pipeline. importante per essere un Grande Romanzo é anche la stazza, sotto le 200 pagine non se ne parla neanche :-)

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  3. Concordo che in tal caso, quantità fa anche qualità.
    (Vuoi mettere il sottile piacere di passare pagina mille con Musil? O l feticistico splendore di un romanzo multivolume?)

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